E’ fuor di dubbio che nel bel mezzo di una pandemia, senza precedenti, diventa prioritario rimboccarsi le maniche per trovare le giuste strategie e gli strumenti più efficaci ad una celere riorganizzazione del Paese. Scelte da adottare con criterio ed intelligenza, il cui percorso dipenderà in gran parte dal tipo di politiche che il Paese progetterà e implementerà.
Non si tratta di discutere il Recovery Plan avanzando un ennesimo contropiano ma di mettere a fuoco una cultura politica capace di condurre alle domande giuste, nella definizione di una nuova visione dell’Italia. Domande da non lasciare poi sospese nell’aria ma che spingano a ricercare anche le possibili risposte entrando, per quanto possibile, nel merito delle questioni. In questa prospettiva la parola chiave per un’evoluzione e cambio di rotta è: ‘nuova formazione e pensiero politico’.
Purtroppo, la visione culturale che ispira questa sintesi non è in armonia con gli schemi mentali cui la politica ci ha abituato in questi ultimi anni. Mai come in questo scenario storico si è evidenziata una modesta, quanto inefficace, capacità dello Stato di produrre idee innovative. Il suo distacco dal paese reale e l’indeterminatezza della rappresentanza, si sono rivelate alla base dell’instabilità che la politica ha subito con le vicende che hanno portato l’Italia in ginocchio.
Gli ultimi eventi, all’ interno delle diverse forze politiche, sono l’espressione di una crisi che c’era da tempo, forse genetica. Si è creduto che per prendere consensi fosse sufficiente sottoporre agli elettori una squadra di governo autodefinita come più capace ed efficiente, che le elezioni si vincessero erodendo l’elettorato dell’avversario, senza più chiedersi attorno a quale pezzo di società si intendesse costruire le alleanze sociali.
Chi rappresenti oggi la politica non è più così chiaro da comprendere. Il declino politico corrisponde all’incapacità di elaborare proposte di governo che vadano oltre le indicazioni convenzionali o che provino a disegnare un altro tipo di società coinvolgendo e mobilitando soggetti sociali interessati a correggerla.
Un quadro così strutturato ha, inevitabilmente, lasciato un largo segmento di società privato di rappresentanza, confuso, disorientato, proprio nel momento in cui ha più bisogno di sostegno, stabilità e certezza organizzativa.
Questo è un tentativo di avviare una discussione su questioni fondanti la struttura della politica, un pensiero controcorrente ma non utopistico che tenta di ridefinire, per il Paese, le coordinate di una politica che oggi richiede che si facciano i conti con i cambiamenti profondi avvenuti in settori quali: lavoro, sanità, scuola, produzione e nei connotati antropologici dopo la pandemia. Non ci sfugge, però che senza interlocutori, capaci di comunicare e di adeguarsi al cambiamento le idee non camminano.
E’ un dato di fatto che un’agenda può avere successo solo se trova soggetti politici che la interpretino e la condividano. Dopo trent’anni di divorzio tra cultura/formativa e politica è difficile farsi illusioni.
Una riflessione che non va intesa come una rigida imposizione di ideologie che offuscano la meta da raggiungere ma si colloca piuttosto in un ambito culturale più evoluto: è l’affermazione di un’altra visione del mondo e delle cose. Si tratta di un passaggio sottile che deve portare ad una nuova battaglia delle idee, che prende spunto da una prospettiva alternativa rispetto a quella che informa l’opinione corrente. Attiene a un altro modo di interpretare la società, il potere, l’azione pubblica, le disuguaglianze ma soprattutto i bisogni e le esigenze del popolo che oggi hanno percezioni diverse dal passato.
Quindi, anche se è difficile attendersi oggi una sua traduzione pratica, non è utopica se si guarda nella giusta direzione.
Questa riflessione disegna un modo d’essere e di posizionarsi inteso ad attrezzare coloro che si collocano su un versante critico. E poiché le indicazioni non hanno nulla di utopistico, nulla che una forza politica, per il tramite di una nuova visione del futuro e del cambiamento politico, non possa realisticamente assumere come orizzonte concreto, potrebbero essere un punto di ripartenza per dare corpo ad una discussione su un insieme di nuovi temi su cui strutturare una politica rinnovata e al passo con il cambiamento.
Un cambiamento che contiene in sé una proiezione di governo al passo con i cambiamenti degli ultimi anni, su come affrontare le disuguaglianze (di reddito, habitat, diritti, sanità, fruizione di servizi sociali e generazionali), che la pandemia ha reso ancora più evidenti, e su come governare il capitalismo in un contesto digitalizzato. Il tutto immaginando un protagonismo dei cittadini e la costruzione di una società partecipata.
Se, in origine, la parola riformismo ha significato: “riformare il capitalismo per renderlo compatibile con la società” e si è poi trasformato in: “riformare la società per renderla compatibile col capitalismo”, oggi si tratta di tornare alla prima definizione e il solo strumento per ridefinire nuove linee guida del paese è la ‘formazione’ intesa come percorso che faccia acquisire agli interlocutori tutti quei strumenti all’avanguardia che garantiscano un adeguamento all’evoluzione degli eventi e delle dinamiche che negli ultimi tempi stanno segnando la proiezione della politica sul paese e viceversa.
Purtroppo, il Covid ha reso ancora più evidenti le lacune e le crepe di questo modo obsoleto di organizzare il Paese e dei suoi principi ordinatori. Siamo di fronte a una biforcazione nelle scelte da adottare: occorre stabilire che tipo di società si vuole ricostruire e quale svolta dare al declino del Paese. Non basta solo idealizzare una buona politica, si tratta di concepire un grande progetto di trasformazione sociale, che mobiliti le intelligenze e le energie di un gran numero di cittadini, che li renda protagonisti. Un progetto che intercetti i bisogni del paese e valorizzi quello spirito pubblico che si è manifestato nel corso della crisi, accompagnato da aspettative di un nuovo ordine attento alla giustizia sociale e meno dominato dai meccanismi di mercato. In termini più ambiziosi, si tratta di pensare a una ridefinizione del compromesso sociale. E allora perché non cogliere in questa crisi una nuova consapevolezza? Questa crisi può offrire una grande occasione per ripensare ad un nuovo assetto politico al passo con il cambiamento che sta mutando la configurazione del nostro Paese, un sistema di per sé impoverito dalla rappresentazione banalizzata dei problemi del Paese, che da tempo i media forniscono. Il percorso che l’Italia seguirà dipenderà dalla capacità di dare ad esso esecuzione da parte di uno Stato che va ricostruito nella sua capacità operativa e formativa.
Del resto è proprio a seguito di questa pandemia che in Italia all’improvviso si è riscoperta la capacità di intervento, poteri caduti in disuso e delegittimati. Lo Stato ha dato prova di vitalità, che per quanto inadeguato, per certi versi, alle esigenze del momento, devo darne atto , allorché si è dovuto sfruttarne le residue potenzialità, ha dimostrato di essere ancora l’unica ancora di salvezza che dia protezione ai cittadini ma, purtroppo, questo non basta. Il tema della ridefinizione dei suoi compiti va imposto, non può essere soltanto idealizzato.
Non poteva essere diversamente che, in questo caos, i cittadini e tra essi i più svantaggiati, ma non solo, anche i più diffidenti verso lo Stato si siano affidati a quest’ultimo.
Affidamento e domanda devono essere indirizzati verso una visione di solidarietà sociale ma è evidente che oggi sono bivalenti a causa delle insufficienze ataviche dell’apparato burocratico e, con esse, della difficoltà a governare processi di cambiamento.
Da lungo tempo ormai l’intervento dello Stato si è ridotto a modalità povere e vetuste. Sono venuti meno strumenti essenziali ad un nuovo progresso quali: la capacità di progettare, di scegliere, di pianificare, di gestire i cambiamenti, ma soprattutto di ascoltare e decodificare i reali bisogni dei cittadini. La conseguenza? uno Stato indirizzato a operare automaticamente seguendo vecchi schemi, senza capacità di valutare le cose, prendersi responsabilità e assumere decisioni di merito sui contenuti e nuovi eventi.
Al netto degli errori politici, tutti i livelli di governo hanno risentito dello stato problematico delle istituzioni. Quel che c’era di un corpo capace di interpretare gli interessi generali e con la capacità di resistere agli interessi particolari e corporativi e, all’occorrenza alla politica, è ormai disperso.
A pensarci bene lo tsunami che ha travolto il Paese potrebbe essere un segnale da non trascurare, che deve portare ad un consapevole cambio di prospettiva: ricostruire una autorità pubblica dotata di piena autorevolezza e capacità di azione efficace.
Un vero e proprio cambiamento organizzativo, strutturale, che porti il Governo a operare per obbiettivi scanditi in azioni ben definite in sinergia con le evoluzioni ed i cambiamenti del momento.
La pandemia costituisce anche un invito a ripensare la dispersione di poteri verso le regioni. Proprio l’emergenza Covid ha evidenziato quanto sia difficile il coordinamento tra le istituzioni di governo nazionali e decentrate. L’insufficiente capacità di interlocuzione ha provocato una spirale drammatica di irresponsabilità e inefficienze. L’autonomia delle regioni, invece di costituire un mezzo per ravvicinare l’autorità pubblica ai cittadini, e promuovere un più accurato governo del territorio, si è trasformata in un ostacolo alla capacità di governare la vita collettiva nazionale. Le politiche pubbliche vanno impegnate in grandi operazioni di riforma: come partire dalla cittadinanza legata al territorio, inteso quest’ultimo come luogo dove essa è riconosciuta, o come area di sofferenza, non come elemento di frammentazione e particolarismo delle politiche che devono restare rigorosamente universalistiche e nazionali. Va riprogettato il miglioramento dell’habitat di milioni di persone, nell’ottica che proprio nella fruizione o meno di un habitat appagante si è manifestata una delle iniquità più acute poste in evidenza dalla quarantena. In questo senso si tratta di un’operazione che congiunge il miglioramento della vita associata alla necessità di una prossima ripresa dell’economia.
Ne consegue che attraverso un’approccio formativo evoluto sarà possibile concepire, in sinergia con le autonomie locali, una vera e proprio vademecum urbano nazionale che riguardi in primo luogo la riqualificazione delle periferie, il rilancio dell’edilizia popolare e del lavoro. Ma tutto ciò si realizza solo con una politica corale nuova, di cui beneficino anche gli abitanti delle aree non interessate; un’azione alimentata dalla condivisione attiva dei cittadini.
Il campo di interventi chiama in causa lo Stato per promuovere una società diversa, dinamica e guidata da strategie mirate e studiate attraverso strumenti al passo con le trasformazioni. Tuttavia, quando si parla di Stato non si parla solo di organismi pubblici decisionali o esecutivi; si parla anche della politica che vi agisce dentro e della cultura che la orienta. Si parla, ancora di partiti, sindacati, società civile, organizzata e non, che agiscono nella sfera pubblica e sono suoi istituti portanti. Se è vero che servirà restituire allo Stato l’autorità di cui è stato espropriato e la capacità di intervenire nelle politiche fondamentali, è altrettanto vero che servirà anche una cultura politica e una capacità di azione collettiva in grado di mettere in discussione gli attuali equilibri tra Stato, politica elettiva e potere economico. Un’analisi che solo uno Stato con una mente evoluta può concretizzarsi in azioni efficienti. Questo dipende dalla consistenza delle istituzioni sociali (partiti, sindacati, cittadinanza attiva) e dalla loro capacità di coinvolgere e comprendere effettivamente i cittadini nella vita pubblica. Si avverte l’assenza di uno Stato dalla cultura politica solida, in grado di suscitare speranze e indicare traguardi, con un pensiero all’altezza di una crisi che ha accontentato l’Italia di ieri ma non può accontentare l’Italia di oggi.
Se le idee non vivono in una dimensione politica organizzata ed evoluta è difficile che diventino energia tale da muovere i rapporti di forza nella società. Come arrivare a quest’esito è un punto di domanda, ma qualcosa sappiamo. Sappiamo che uno Stato efficiente si riconosce in una cultura politica condivisa circa l’ordine possibile della società e si organizza per promuovere le sue idee. Servono, programmi e proposte di policy, ma se la cultura è debole, ai programmi e alle politiche mancano le gambe e la forza per camminare. Difettano di strumenti adeguati per affrontare le trasformazioni in corso e a venire o per esprimere qualsiasi ambizione sociale. Oggi più che mai serve un modello di sistema capace di indicare una direzione di marcia per uscire dal declino, di ricomporre la società, di contrastare i conflitti corporativi e di farlo attorno a una concezione rinnovata e solidale dell’Europa. Pur tra molte incertezze, in Europa si sta aprendo un campo di azione per le politiche e per il perseguimento di interessi pubblici non serviti dal mercato, che invita i governi a programmare e a intervenire Din prima persona nella allocazione e nella destinazione delle risorse.
La battaglia culturale è dirimente per l’indirizzo da imprimere alla politica di quest’epoca e lo è anche per la conquista dell’immaginario collettivo e per ridefinire i connotati antropologici della società. Il compito non è facile, anche perché convive con sentimenti conservatori e perfino reazionari di parte dell’opinione pubblica, legati a una percezione di insicurezza ma, non impossibile. Ciò che serve è una capacità di critica dell’esistente e un impianto intellettuale predisposto a portare in campo un punto di vista alternativo diciamo così: ‘più moderno’. Il cambiamento delle cose si fa nelle cose, ma senza nuove idee e strategie rilanciate da politici con una mentis più elastica, non si va da nessuna parte.
Il vecchio ordine non funziona più, non è più al passo con le trasmutazioni repentine del nostro paese. Il neoliberismo non è più la ricetta con cui sia Paese può essere governato. Tuttavia ancora prevale ed è accreditato nell’orientamento dei media, della scuola, delle imprese, della politica. Così, responsabilità, spirito di iniziativa, merito, imprenditività, competitività sono diventati principi costitutivi della società in cui viviamo. Tuttavia, stanno divenendo parole vuote in cui le persone si riconoscono sempre meno perché è venuta meno la fiducia che le leve della mobilità sociale adempiano effettivamente al compito. Creare una società diversa ha perciò quale premessa la formazione di un nuovo spirito politico: rompere la gabbia dell’individualismo utilitaristico, far diventare egemone un sentimento di solidarietà reciproca. Per tale prospettiva oggi sono disponibili risorse preziose quali:
-una maggiore consapevolezza civica dell’esigenza di uscire insieme dalle difficoltà, di prendersi cura dei beni e dei servizi che sostengono la vita in comune, di rimuovere le disuguaglianze sociali ed educative.
-una società ricca di fermenti associativi, di esperienze di cittadinanza attiva e di innovazione sociale e culturale che se anche poco visibile nella rappresentazione mediatica, l’azione collettiva non è spenta, anzi costituisce oggi la principale sorgente della vita democratica.
Prendere atto di queste risorse vuol dire proiettarsi a un cambio di paradigma, che trova stimolo sempre da opportunità che nascono nelle condizioni storiche, dallo sviluppo di nuove letture della società e da avanguardie che già sperimentino quel paradigma alternativo.
Il campo di rinnovamento e di rinascita del Paese è questo.