Nel commentare l’ultimo film di Gianni Amelio, Hammamet, la critica ha sottolineato la controversa interpretazione che persiste in Italia sulla figura di Craxi: «un “maleducato, manigoldo, malfattore, malvivente e maligno”, o un uomo dalla statura fisica e politica imponente “circondato da nani”, bersaglio di una “congiura contro la sua persona” più che contro un sistema di cui “tutti facevano parte”?». Viene il sospetto che le due interpretazioni non si escludano.
Merito del film è proprio riproporre una questione, riaprire una ferita e ricordare un rimosso collettivo. «Il caso C. non è chiuso», come annuncia in tono di sfida il figlio Bobo. «Non finisce qui», come minaccia Craxi stesso guardando in camera, guardandoci.
Senza giustificare né demonizzare il leader socialista, Amelio si tiene fuori dalla politica in senso stretto, come dalla cronaca: il suo non è un biopic. Personaggi e scene sono create e immaginate appositamente (e forse un po’ troppo fantasiosamente) per mettere in risalto e a fuoco l’uomo Craxi e insieme l’incarnazione del potere, di un vecchio potere che assiste lucidamente alla sua deposizione. Nelle sue parole, pur attraverso il cinismo e l’arroganza del leader milanese, si sente quasi l’eco del Gattopardo o il disincanto siciliano di uno Sciascia. Sarà l’indole meridionale del regista. Sarà il confronto scontato fra l’oggi e quel passato così distante.
Un film che, anche a giudicare dall’affluenza nelle sale (è secondo in incassi dopo Tolo Tolo), tocca un nervo scoperto e provoca con successo gli italiani, come italiani ma anche come persone, a riflettere con lucidità e insieme con sofferta partecipazione sull’annoso dilemma dell’equilibrio fra il potere e la giustizia. Si può quasi osare sperare che questo sia il sintomo di una crescente domanda di approfondimento e normalizzazione del discorso pubblico, l’auspicio di un ritorno di equilibrio e saggezza nel pensiero politico e sociale. È sperare troppo?