Abbiamo affrontato il tema dell’identità digitale e di come le nostre tracce nel web non siano neutre, ma possano essere utilizzate per scopi diversi.
Tra gli utilizzi fraudolenti di cui si ha avuto vasta eco nella cronaca recente è l’odio sociale.
Il termine inglese “hater” significa letteralmente odiatore e viene utilizzato per individuare quegli individui, reali o presunti, che compiono azioni di disturbo sui social. Tali prassi vanno dai semplici commenti sconvenienti o divisivi a veri e propri insulti e improperi.
Strettamente correlato al fenomeno degli haters sono i troll, profili falsi, creati ad hoc a tale funzione.
Il presunto anonimato concesso da internet, combinato con l’impersonalità del mezzo, hanno generato un clima aggressivo che trascende l’oggetto della discussione. Volgarità e violenza albergano già da tempo nei media, ma l’anonimato garantito dallo schermo permette anche a deboli e frustrati di liberare i peggiori istinti, sdoganando comportamenti e malcostume altrimenti difficilmente sostenibili in un confronto a viso aperto.
A far germogliare il seme della violenza possono essere i motivi più disparati: un fatto di cronaca, una opinione, una azione, una fotografia, ma ciò di cui gli haters sono divoratori e bulimici diffusori, sono le fake news. Notizie di cui non è importante verificare fondatezza, purché infanghino qualcosa o qualcuno. Bufale talmente macroscopiche che, spesso, basterebbe una media intelligenza o una media cultura per smontarle, eppure è stato necessario creare siti appositi nel tentativo di arginarle.
Da uno studio dell’osservatorio italiano sui diritti Vox, in collaborazione con La Sapienza di Roma, La Statale di Milano e l’Università di Bari Aldo Moro, è stata aggiornata la Mappa dell’intolleranza, ove emergono le sei categorie su cui si concentrano le ondate di violenza informatica.
Donne, omosessuali, immigrati, diversamente abili, ebrei e musulmani. Il campo semantico per veicolare l’odio sono auspici di morte, violenza (verbale, fisica e sessuale), turpiloquio espressi con ferocia e cinismo tali da presupporre una superiorità razziale, sessuale o religiosa di appartenenza dell’hater nei confronti della vittima.
L’analisi dei tweet a base della mappatura è utile strumento ad intercettare fenomeni di cyberbullismo che passano per i social, canali privilegiati di incitamento all’intolleranza e all’odio verso gruppi minoritari, che spesso poi degenerano in episodi violenti nella vita reale.
In tempi in cui l’opinione pubblica si forma su canali di comunicazione diversificati, di cui i social ne sono divenuti parte integrante e talvolta imperante, il ricorso ad haters professionali permette di avvelenare dibattiti pubblici, politici, economici o culturali, e manipolare i sentimenti a favore o contro personaggi, decisioni, misure anche fiscali, legali o di governo. Nel marketing l’uso di haters provoca un effetto empatico che genera avversione o gradimento di brand o prodotti che si riverberano in perdite o guadagni commerciali.
Il fenomeno, al di là degli effetti, è un chiaro sintomo della difficoltà di gestire nuove forme di comunicazione e di armonizzazione internazionale delle azioni da intraprendere.
Quanto mai necessario diffondere dalle scuole ai vari presidi informativi una cultura di civile convivenza e l’uso rispettoso della comunicazione. Campagne come Iononodio e Odiareticosta sono solo l’inizio, adesso l’impegno passa alla società civile e alla politica.