Qualche notte fa ho fatto uno strano sogno. Mi trovavo in Spagna, stavo salendo su una torre, di quelle di avvistamento che nel Medioevo servivano ad allertare la popolazione circa lo sbarco di feroci pirati. La scala era esterna e provavo anche un certo disagio per il senso di vuoto che mi incuteva l’altezza dal suolo. Quando stavo per arrivare alla sommità, ecco ergersi una figura sull’ultimo gradino che, pur se fisicamente esile, ostacolava la conquista della terrazza merlata dalla quale avrei potuto godere di un panorama mozzafiato della costa iberica. Mentre tremolavano minacciosamente i suoi lunghi e fini baffetti, mi intimava con tono perentorio: “Sono io il padre, scrivilo ai tuoi tre lettori, sono orgoglioso di essere il padre e nessuno potrà mai metterlo in dubbio!”.
Risvegliato madido di sudore, più per l’emozione notturna, della quale faticavo a capire il significato, che per la canicola estiva, comincio ad analizzare gli ultimi miei accadimenti per cercare di dare un senso al sogno. Certamente deve esserci una qualche attinenza con la mia realtà e, non volendo aspettare un nuovo sogno nel quale chiedere spiegazioni a Freud, metto a fuoco il volto del misterioso uomo, autore dell’imperiosa frase sulla torre. Il volto, la cui severità era dettata dalle segaligne fossette guanciali e dalla netta direzione dei sottili baffetti che fuoriuscivano dal contorno del viso puntando minacciosamente le estremità verso la realtà immaginifica, mi ricordava tanto quello di una cara persona alla quale sono legato: Josè Van Roy Dalì.
Mi accoglie al cancello di una villetta, a malapena visibile dalla strada, coperta com’è di foglie, fiori, alberi, piante rampicanti, un crogiuolo di colori che rappresentano solo l’aperitivo di ciò che sto per vedere. È un incontro con una persona che non solo conquisterà la mia stima ma che anche entrerà stabilmente nella mia amicizia, con la bellissima moglie Barbara e con tutta la famiglia di gatti che popolano ogni angolo della residenza. E, a proposito di gatti, alcuni timidamente si nascondono dietro le gambe del Maestro che, superata una prima e giustificata diffidenza verso l’intruso giornalista, apre cordialmente le porte di un angolo di paradiso naturalistico e artistico del suo buen retiro, posto sui magici monti che vigilano sulla capitale.
Tra un’aiuola, dei cespugli verdi ben curati, fiori di ogni sfumatura, spunta una stele, con un nome, il suo, un’alfa e un’omega: data di nascita e data del decesso. Quest’ultima risale a qualche decina di anni fa… Un sorriso sornione, tipico della espressività di Josè, mi rassicura sulle intenzioni dell’epigrafe che, pur presentando tutti i lapidari crismi, si risolve nell’ennesima burla di cui solo il grande artista è capace!
Se l’esterno dell’abitazione presenta qualche opera che rivela la presenza dell’artista, gli ambienti interni fanno ritenere che il Maestro ogni tanto soddisfi qualche attività prettamente biologica che interrompa, seppur per poco, la sua produzione. Viene il dubbio, al primo acchito visivo, che la villetta abbia sculture per muri portanti e quadri per pareti tramezze… Soprammobili impossibili, soffitti dipinti, sculture spagnoleggianti, tavoli decorati, trompe l’oeil che confondono, un coccodrillo che, seppur di cartapesta, minaccia l’incolumità del visitatore, specchi che rimandano immagini fuorvianti (sembro magro!)… La parola “museo” sa troppo di antico per un ambiente in cui le opere nascono e vivono contemporanee e perenni con l’autore.
Il Maestro mi conduce al suo studio, il locale più intimo dell’artista, la “bottega” in cui traduce in materia le ispirazioni vere, cioè quelle oniriche nella fattispecie… Qualche critico d’arte parlerebbe di “Neosurrealismo” ma contrasto con tutta la mia piccola forza questa etichetta. Josè è unico nel suo genere, le opere risentono del Surrealismo come ogni gemito di bimbo ricordi il timbro vocale del padre, ma poi la voce appartiene all’individuo, al soggetto, alla sua personalità. E di personalità Josè ne ha da vendere, gli episodi della sua esistenza testimoniano la sua energia espressiva, nell’arte, nella società, nella vita del mondo.
L’intervista, tenuta su un ombreggiato salottino esterno circondato da animali eterogenei (a proposito, le zanzare scelgono me quasi rispettando la sacralità artistica dell’epidermide di Josè…), sembra una chiacchierata tra due vecchi amici, simpatici episodi del passato si alternano a piccanti barzellette, il buonumore è la specialità della casa… Praticamente dimentico il motivo per cui ero lì, dimentico di fargli domande sul suo lavoro, sulla programmazione degli eventi, sulle tecniche usate, sui rapporti con le gallerie, con le accademie, con la televisione, con i mercanti, i critici e gli storici… La sua simpatia, di concerto con la cordialità di Barbara, mi fanno sentire “di casa” e quando realizzo l’orario, mi rendo conto che anche io ne ho una dove mi aspettano…
Qualche notte dopo mi riappare Salvador il quale, dopo avermi chiesto conto dell’ospitalità ricevuta da Josè, mi avverte che la torre è a mia disposizione e che, se voglio, posso usarla per eliminare qualche detrattore del figlio buttandolo giù. Poi prendo sonno…