Il coccodrillo come fa?

Uno dei più grandi ostacoli, anche per molti giovani, è rappresentato dalla scrittura di un testo. Gli insegnanti di italiano di tutte le scuole combattono una battaglia di Sisifo, dal momento che le circostanze ambientali e storiche non danno loro una mano. Il vocabolario derivante dall’esperienza extrascolastica è infatti molto risicato e circoscritto ad anglismi di giochi digitali, slogan di banali avvisi pubblicitari, espressioni di rozzi affabulatori di media sociali, parole sconnesse di cantanti rap e modi di dire che trovano la loro forza solo nella ossessiva, circolare e urlata ripetitività. La lingua scritta, poi, è prodotta attraverso una ulteriore mediazione della nostra mano tra il supporto sul quale si scrive e il nostro cervello e per fare ciò, pur nell’automatismo acquisito del processo, si può impiegare da qualche frazione di secondo a qualche minuto, da qualche ora a qualche mese… L’avvento dell’era digitale e, più in generale, il progresso dei mezzi di comunicazione, ha ridotto notevolmente i tempi della nostra vita, in tutti i sensi: se una volta per raggiungere Milano, partendo da Roma, si impiegava anche una giornata, oggi con tre ore si passa da Piazza di Spagna a Piazza del Duomo. Se una volta per avere un “sì” sentimentale occorreva un lungo corteggiamento con dichiarazione finale e autorizzazione dei genitori, oggi, a volte, non serve neppure il consenso informato dopo aver consumato l’ennesimo rapporto… Ecco, quindi, che disponendo di pochi mezzi e, soprattutto, disponendo di poco tempo, risulta difficile argomentare un testo scritto nella nostra attualità giornaliera. All’interno, poi, del testo scritto, si presenta un ostacolo insormontabile che è l’uso della punteggiatura. A che servono punti, punti e virgola e due punti se l’utilizzatore finale non conosce i termini che devono separare e il perché? A proposito di punteggiatura desidero soffermarmi, però, su un segno piccolo piccolo, quasi romantico, che ha fatto anche la fortuna di un noto marchio di abbigliamento: la virgola.

Dal vocabolario digitale (ecco, digitale, come dovevasi dimostrare…) della Treccani, leggo per i miei tre lettori, se non hanno già deciso di lasciarmi solo in questa donchisciottesca battaglia: “segno di punteggiatura, simile a un bastoncino leggermente ricurvo, che indica pausa debole all’interno del periodo”. Se la definizione è chiara e corretta, e non mi permetto minimamente di contestarla data la mia ignoranza in materia, mancherebbe però, a mio avviso, di un’indicazione accessoria che tanto potrebbe essere utile. Laddove, infatti, è indicata come “segno”, esclude inevitabilmente che possa essere usata anche nel linguaggio verbale che, come noto, non dispone né di penna, né di matita e né di tastiera. Eppure, sempre a mio parere, deve esistere anche una virgola mentale, quella “pausa debole” che, interposta tra due parole, riesca contemporaneamente a dare importanza alla prima e a enfatizzare la seconda. E, poi, perché non utilizzare quel breve intervallo per riavvolgere il nastro delle parole dette per valutarne la coerenza? E, infine, perché non utilizzare quel breve intervallo per raccogliere le idee per non dire… stultiloquia?

Ma, tant’è, nessuno sa come fa la virgola nel parlato, al pari del coccodrillo quando esprime le proprie idee. Forse sarebbe il caso che gli insegnanti, sin dai primi anni scolastici, recuperassero la virgola nell’accezione latina originaria, “piccola verga”, per inculcare sin da piccoli nelle menti, nelle mani e nelle lingue questa piccola pausa, terapeutica e senza controindicazioni…

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