Abbiamo chiarito cosa sia il nostro IO digitale. Come sia importante ragionare sugli effetti diretti e indiretti delle nostre azioni sul web. Abbiamo compreso che le tracce lasciate in rete non sono solo dirette e volontarie (i nostri post, i nostri like, i commenti, le recensioni, le condivisioni di immagini o notizie, il nostro profilo), ma anche passive e desunte (partecipazioni a blog, email, shopping on line, elenco ricerche sui browser, pagine visitate, etc) e che esiste ina tracciabilità indiretta che spesso ignoriamo e su cui è difficile esercitare alcun tipo di controllo (adesioni a comunità web su cui esprimiamo opinioni o condividiamo interessi e esperienze che divengono oggetto a loro volta di condivisioni e commenti).
Ciò che ripetiamo è che il web non dimentica: ciò che ci riguarda sarà sempre disponibile, ciò che postiamo costituisce la nostra identità digitale che, nel tempo, si implementa di nuovi elementi utili al confronto e alla creazione di un riferimento eterno di noi stessi. È quindi il caso di proteggere meglio ciò che ci riguarda.
Le sfere toccate da queste informazioni riguardano porzioni delicatissime della nostra esistenza che, banalmente, sottovalutiamo.
Pensare di essere persone “cristalline” senza ombre e ambiguità non ci mette a riparo da manipolazioni e distorsioni delle informazioni condivise a cuor leggero. In questa trappola vediamo cadere anche persone note, spesso dotate di team di comunicazione e social media expert, eppure gaffe, talvolta serie e imbarazzanti, possono mettere a rischio carriere politiche o pubbliche o offrire il fianco a serie avversioni, tensioni e proteste. In una epoca in cui la tecnologia ci offre una telecamera sempre accesa sul mondo, anche alte cariche o celebrità sono sotto il costante mirino dell’opinione pubblica. Così anche persone “normali” sono oggetto di foto, riprese, registrazioni che, se mal diffuse sul web, possono generare anche gravi conseguenze.
Ultimamente, casi di cronaca su grandi colossi gestori dei media, hanno portato l’attenzione della pubblica opinione sui processi di elaborazione dai data broker e sull’uso che ne viene fatto. Singoli indizi digitali, desunti da applicazioni diverse, in capo al medesimo soggetto, permettono di ricostruire personalità, gusti, attitudini utili a diversi fini. Queste profilazioni divengono merce di scambio in un mercato virtuale di marketing, pubblicità e non solo. Se in campo pubblicitario è noto l’uso di studi e strumenti che intercettino i gusti del pubblico per creare strategie mirate al brand, col tempo tale prassi si è fatta strada anche in ambito politico o di veicolazione delle opinioni, rasentando la manipolazione o la suggestione di massa.
Conoscere i nostri gusti, le nostre opinioni, propensioni e idee permette di costruire veri e propri modelli di comunicazione. Non si conosce bene gli usi e gli effetti nel medio e lungo periodo. Ipotesi futuribili prospettano la possibilità che ci vengano veicolate solo un certo tipo di informazioni o dati o notizie che suggellino la nostra adesione a certe scelte o che, di converso, ci escludano dalla somministrazione di servizi cui veniamo ritenuti inadatti o disinteressati. Insomma: 1984 riveduto e corretto 40 anni dopo!!!
Non dobbiamo sottovalutare la tutela dei nostri dati, strettamente connessa alla nostra libertà!