«IT’S JUST A WAY TO REMAIN SANE». (Non solo) Sanchita Islam

Il 10 ottobre si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Per l’occasione, presentiamo l’iter creativo della eclettica artista anglo-bangladese Sanchita Islam, attivamente impegnata su più fronti nella campagna globale a favore della salute mentale. Pittrice, scrittrice, regista e, non di meno, madre di due bambini, offre il suo contributo pubblicando articoli sui blog “Huffington Post” e “Art, Motherhood and Madness” (da lei curato) e, soprattutto, testimoniando, per mezzo dell’arte, la propria esperienza di vita, quella di una donna affetta da schizofrenia.

Sanchita Islam, in arte Shonchi, è nata, nel 1973, a Manchester da genitori bangladesi. La varietà del suo percorso formativo già rivela la natura poliedrica e straordinariamente dinamica della sua identità: completato, nel giugno del 1992, un corso annuale di alta formazione all’Università Metropolitana di Manchester, nel settembre del 1996, si è laureata in economia e, in seguito, specializzata in politica comparata, presso l’Università di Londra; nel febbraio del 1998, ha conseguito un master in regia e sceneggiatura sponsorizzato da Channel 4 alla Northern Media School dell’Univeristà di Sheffield Hallam e, per finire, si è iscritta alla Facoltà di Pratica delle Belle Arti e Teoria delle Arti Visive del College of Art and Design di Chelsea (ritirandosi al secondo anno). Dal 1996 al 1998, ha lavorato come ricercatrice per la London Weekend Television. Nel 1998, ha partecipato alla mostra collettiva 000 alla Whitechapel Art Gallery di Londra. Nel gennaio 1999, ha dato vita al progetto “Pigment Explosion”, inizialmente finalizzato alla organizzazione di eventi artistici dal vivo, ora volto a rassegne internazionali di disegno, pittura, scrittura, cinema e fotografia – tutti i linguaggi per mezzo dei quali ha scelto di esprimersi e raccontare la propria storia.

In poco più di vent’anni, ha realizzato circa un centinaio di mostre collettive e personali tra Londra, Parigi, New York e il Bangladesh; scritto una decina di libri e due commedie (The suitcase e Hello, messe in scena, rispettivamente, nel 2010 e nel 2011 dalla compagnia Estaca Zero Teatro in Portogallo); prodotto e diretto quindici film, tra cui uno d’animazione, The White Wall, commissionatole, nel 2010, dall’UK Film Council; scattato numerose fotografie del Bangladesh, del Nepal e della Cambogia, di Cuba e, soprattutto di Mia (suo alter ego più affascinante ed estroverso); e, persino, collaborato con il British Council a progetti per gli anziani e per bambini svantaggiati e a laboratori nelle scuole. Al suo lavoro, molto apprezzato e spesso finanziato da rilevanti enti pubblici come il British Council, l’Arts Council, il Commonwealth Institute e la BBC è stata dedicata, nel marzo 2013, una retrospettiva di metà carriera al Rich Mix di Londra.

Nel gennaio 2015, ha pubblicato, sotto lo pseudonimo di Q.S. Lam, Schizophrenics Can Be Good Mothers Too (Anche le schizofreniche possono essere buone madri), un diario-saggio in cui ripercorre le fasi della psicosi postpartum (una forma più rara della depressione postnatale, che può produrre allucinazioni e crisi paranoiche), che ha indelebilmente segnato la sua vita a partire dal 2009. Il libro, scritto in ospedale, combina le dolorose memorie dell’autrice con alcune considerazioni di carattere generale relative alle cause e agli

effetti del disagio psichico e ai suoi possibili rimedi: da un lato, condivide con generoso coraggio il trauma di una violenza sessuale subita in adolescenza, la terrorizzante ossessione, sorta durante e rimasta anche dopo la gravidanza, di uccidere i suoi figli e l’interminabile, pericolosissimo, duello, che si svolge da anni nella sua mente, fra la propria voce e quella di un certo “Fred”, il quale la perseguita esortandola a togliersi la vita; dall’altro, invita a riflettere su questioni di interesse pubblico, come i danni cerebrali prodotti dall’abuso di alcol e di sostanze stupefacenti, la mancanza di un adeguato supporto per le neo mamme, la differenza tra Europa e Asia nella gestione delle malattie mentali (in Bangladesh se ne parla poco e con grande difficoltà) e il potenziale terapeutico dell’espressione artistica.

Certa che siano in realtà l’educazione e la solidarietà a giocare i ruoli principali nel “dramma” (individuale quanto collettivo) della psiche, Sanchita contrasta i sintomi del proprio disturbo, piuttosto che con l’assunzione di appositi psicofarmaci, con l’impegno nella sensibilizzazione al tema. A proposito di tutti coloro che, come lei, soffrono di malattie mentali, afferma: «[…] le loro vite non si fermano. Una persona con la mia diagnosi apparentemente finisce senza lavoro, senza casa, senza amici, senza figli o morta. Voglio dire, non è utile. Io non sono nessuna di quelle cose. Sto funzionando. Sono pubblicata. Sto lavorando, sto guadagnando. È davvero importante che le persone credano di poter dare un contributo alla società attraverso la loro creatività. Devi dare alle persone un senso di scopo.». Probabilmente, è questo il miglior modo di mantenersi sani di mente.

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