Sembra un’era, eppure sono solo vent’anni dalla scomparsa del regista statunitense Stanley Kubrick, che proprio l’anno della morte (7 marzo 1999) ci lasciava l’ultima sua opera, Eyes wide shut, film inquieto e drammatico. Sembra tanto, perché la potenze delle immagini di Arancia meccanica, Barry Lyndon o 2001: Odissea nello spazio hanno fatto epoca, hanno impresso nella memoria dei momenti storici, che sembrano lontani proprio in virtù della perfezione di quelle immagini. La perfezione, forse la vera cifra stilistica di Kubrick, ne segna appunto la grandezza, e al contempo la distanza dal cinema di oggi. Si è venuta affermando col tempo una tendenza alle immagini e le storie più “realistiche” e quindi meno curate, meno calcolate e precise. Pochi sono i registi che propongono opere in cui forma e contenuto siano concepite con cristallina solidità e decisione. Non si vuole dire che il cinema sia in declino, sarebbe falso, e rivelerebbe un punto di vista viziato da una malinconica chiusura nel passato. Si vuole evidenziare invece la proprietà del cinema kubrickiano, cioè la potente essenzialità di immagini e trama, caratteristica in effetti quasi scomparsa in nome di un maggiore realismo del cinema post 2000. Unico erede sembra essere per certi versi P. T. Anderson, con capolavori quali Magnolia, The Master, Vizio di forma, Il filo nascosto.
La potenza delle immagini che raccontano l’essenza di una storia meglio di mille parole resta ancora oggi la necessità prima del cinema e dell’arte, seppure con altri toni e per altre vie. Ancora oggi, in altri modi, si sente l’esigenza di un immaginario potente, forte, deciso, essenziale. La necessità di immagini che facciano insieme aprire e sbarrare gli occhi.