C’è un senso in cui sarebbe possibile intendere il grado di inclusione raggiunto dalle istituzioni educative come criterio di valutazione del grado di civiltà del nostro tempo. Questo è vero perché, almeno a livello teorico, il concetto di inclusione non può prescindere, per quanto concerne la genealogia della sua storia, da una vasta rete concettuale in qualche modo legata al riconoscimento di diritti inalienabili a persone considerate diverse, minorate, incapaci, talvolta giudicate storicamente addirittura non umane. Sarebbe sì strano, ma non del tutto infondato, inserire in una storia filosofica del concetto di inclusione, ad esempio, anche i meccanismi psicologici, tradotti poi in pratiche effettive di inclusione all’interno della categoria di ‘genere umano’ delle popolazioni americane scoperte nel 1492. Estendendo concettualmente la questione si potrebbe fare un altro esempio relativo al modo in cui la cultura cristiana, dalla sua nascita ai giorni nostri, ha veicolato messaggi inclusivi consentendo il riconoscimento, l’accettazione, il rispetto e l’aiuto dall’altro-da-noi, sul modello della donazione agapica di Dio che ogni cristiano deve sforzarsi di emulare. Qualcuno potrebbe intendere questi percorsi teorici come inutili divagazioni in stile filosofico, poco utili rispetto alla pratica quotidiana effettiva. Tale giudizio negativo potrebbe trovare conferma nell’usanza, comune nella manualistica concorsuale ma anche nella letteratura specialistica, di far cominciare la storia dell’inclusione dagli anni Settanta del secolo scorso e di limitarla ad una storia del concetto istituzionale di inclusione. La storia che io ho in mente, invece, muove da altri presupposti. Una formazione completa e davvero robusta dell’insegnante specializzato, che non si riduca ad un sapere funzionale ai casi concreti ma che appunto si apra a dimensioni esistenziali e filosofiche decisamente più ampie non può ignorare una considerazione di principio che mi sforzerò di presente nel modo più sintetico possibile: è impossibile mettere in atto meccanismi inclusivi a livello scolastico senza possedere un’adeguata cultura inclusiva che permetta di orientare tali meccanismi, motivare le scelte che ne sono alla base e inquadrare all’interno di un orizzonte conoscitivo più ampio una professione, qual è quella dell’insegnante specializzato, che ad ogni piè sospinto rischia una deriva oggettivante e alienante. La costruzione di una cultura realmente inclusiva – che è cosa ben diversa dall’attuazione di mere pratiche inclusive – collocherebbe la professione dell’insegnante specializzato all’interno di un orizzonte antropologicamente più profondo e pregnante nella misura in cui attiverebbe nell’insegnante consapevolezze e sensibilità non soltanto professionali ma umane. È la professione, infatti, ad essere sussunta nella più generale capacità relazionale umana e non è certamente tale capacità a doversi di volta in volta riconfermare e ricalibrare in base alle esigenze professionali – spesso assai stringenti e asetticamente determinate da logiche burocratiche e formalistiche. Questo stesso discorso L. Binswanger lo proponeva – come ho già ricordato in un precedente articolo – per la professione psichiatrica che, a parere dell’illustre psichiatra, altro non doveva essere che una declinazione particolare della più generale capacità umana di prendersi cura dell’altro. La costruzione di un’autentica cultura inclusiva (alla quale dedicherò certamente ulteriori interventi per questa rivista), però, non può certamente ridursi al mero studio della normativa scolastica che, come dicevo poco più su, per quanto concerne l’Italia si fa iniziare dagli anni Settanta. Il processo generalmente descritto nella manualistica è quello che va dalla cosiddetta integrazione scolastica fino all’inclusione scolastica, considerata – spesso assai banalmente e frettolosamente – come il risultato del mero inserimento nelle dinamiche sociali ed apprenditive del gruppo classe della persona con disabilità. In verità l’inclusione scolastica che ho in mente non è un concetto che può intendersi come il risultato trasformativo di politiche scolastiche ma, al contrario sono proprio tali politiche istituzionali a doversi fondare su retroterra culturali più vasti dal punto di vista concettuale e più antichi dal punto di vista storico. In conclusione si potrebbe affermare che la carenza, ancora una volta, è da evidenziarsi proprio nel momento formativo dell’insegnante specializzato. In questo senso si dovrebbe dire che un sapere meno funzionale e più astratto e teorico avrebbe il merito di radicare la professione nel più solido
terreno dell’umanità dell’insegnante specializzato, come d’altra parte dovrebbe accadere per ogni professione d’aiuto che faccia della relazione l’elemento cardine del suo operato.