Nel 1581 il pittore Federico Zuccari insieme al suo sfortunato collaboratore Passignano (Domenico Cresti) subì un processo “per eccessi”, al termine del quale furono entrambi giudicati colpevoli.
L’accusa di “libello famoso”, ossia di opera – scritta o, come in questo caso, visuale – diffamatoria nei confronti di qualcuno giungeva in seguito all’affissione da parte di Zuccari di un cartone nel quale sbeffeggiava un personaggio molto vicino al papa: spiegando a gran voce il significato dell’opera – nella quale il personaggio in questione figurava nelle vesti di un Mida dalle orecchie d’asino, respinto insieme ai suoi cattivi consiglieri dalla Porta della Virtù, difesa da Minerva in persona la quale, armata, non permette a niente e nessuno di varcarne le soglie, fatta eccezione per un’opera dello stesso Zuccari – il pittore nativo di Sant’Angelo in Vado attaccava apertamente la sua reputazione.
Il personaggio oggetto dell’attacco era il bolognese Paolo Ghiselli, uomo “familiare e continuo commensale” del pontefice – anch’egli originario di Bologna – Gregorio XIII Boncompagni, che lo amava come un figlio.
Per comprendere le ragioni della rappresaglia di Zuccari – il quale nel giorno della festa di S. Luca, il 18 ottobre 1581, oltre ad affiggere il cartone in bella mostra sulla facciata della chiesa dedicata al santo era rimasto lì per commentarlo ad alta voce in modo tale da essere certo che a nessuno sfuggisse il senso della sua composizione – occorre spostarsi proprio a Bologna e tornare indietro di qualche anno.
Nel 1578 Ghiselli aveva commissionato a Zuccari una pala per la propria cappella, in quel momento ancora in fase di costruzione, nella chiesa di S. Maria del Baraccano. Il dipinto avrebbe dovuto raffigurare la processione che nel 590 papa Gregorio Magno – omonimo del Boncompagni – condusse attraverso Roma perché la peste abbandonasse la città, a conclusione della quale l’arcangelo Michele apparse in cima alla mole adrianea rinfoderando la spada.
Zuccari, all’epoca impegnatissimo, riuscì comunque a spedire l’opera entro la fine del 1580, e nel marzo successivo la cappella venne inaugurata.
Paolo Ghiselli, però, rifiutò l’opera a seguito della lettura di un memorandum nel quale alcuni artisti bolognesi la criticavano descrivendone dettagliatamente i difetti. L’incompetenza rivelata secondo Zuccari dai giudizi negativi di questi uomini – e in effetti alcune delle caratteristiche da loro descritte non corrispondono a verità – verrà ampiamente sottolineata dal cartone oggetto del procedimento giudiziario, nel quale li raffigurerà come ignoranti mossi esclusivamente dall’invidia nei suoi confronti, indegni della virtù (a giudizio di Minerva stessa) e intenti a sussurrare malignità inesatte alle orecchie dello sciocco Mida.
Zuccari si offrì di rifare la pala – il rifiuto da parte di un committente, infatti, era una macchia che nessun pittore avrebbe potuto sopportare; per un artista – specie uno vanitoso come Zuccari – era molto meno dispendioso fare un altro tentativo, anche modificando sostanzialmente l’opera, piuttosto che convivere con un no.
Ghiselli, tuttavia, non gli accordò questa gentilezza, optando invece per un reindirizzamento (bolognese) della committenza, la quale pervenne infine nelle mani di Cesare Aretusi, il quale con la collaborazione di Giovan Battista Fiorini e Prospero Fontana realizzò la pala ancora oggi conservata nella chiesa del Baraccano.
L’opera prodotta da Aretusi non era, in realtà, troppo diversa da quella di Zuccari; era più semplice, però – caratteristica che ne facilitava la lettura – ed era più in linea con le idee dell’arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti. Egli infatti non apprezzava, nelle immagini sacre, che gli elementi secondari prevalessero rispetto al soggetto principale – una delle critiche dei bolognesi alla pala di Federico Zuccari riguardava proprio il fatto che avesse rappresentato più grandi le figure che avrebbero dovuto avere minore rilievo rispetto alle altre e viceversa avesse rimpicciolito eccessivamente figure alle quali sarebbero spettate le dimensioni maggiori.
Un’altra caratteristica che non incontrava i gusti di Paleotti era la presenza in opere il cui soggetto era religioso dei ritratti dei committenti, da lui giudicati come un’inopportuna autocelebrazione; non apprezzava, inoltre, che venissero raffigurati i santi con le fattezze di personaggi noti della società contemporanea, trovando che ciò fosse gravemente irrispettoso.
Entrambe le cose – errori dal punto di vista di Paleotti – erano presenti nella pala realizzata da Zuccari per la cappella di Paolo Ghiselli: il suo dipinto, dunque, oltre ad esacerbare la gelosia nei suoi confronti da parte dei colleghi bolognesi, meno considerati rispetto a lui nonostante la connazionalità con il pontefice, non dovette destare nemmeno l’approvazione da parte dell’arcivescovo che aveva consacrato la cappella.
La pala rifiutata venne dunque donata da Zuccari al collegio bolognese dei gesuiti, alla sola condizione che fosse esposta pubblicamente, come a dire che sebbene Ghiselli e il suo entourage avessero bollato l’opera come indegna di figurare in una cappella, altri, dotati di un gusto e una conoscenza artistiche assai maggiori, l’avevano invece accettata ed erano stati ben felici di esporla.
In realtà, come confermano alcune fonti coeve, Zuccari sfruttò questo cambio di destinazione per modificare sensibilmente l’opera, non perché ritenesse la prima versione non sufficientemente completa o valida, bensì per supportare la sua difesa di sé stesso: le correzioni che apportò alla pala, infatti, furono per lo più negazioni di ciò che nel memorandum era stato criticato.
Gregorio XIII aveva nel tempo destinato molti onori all’ambizioso Zuccari, al quale peraltro da poco più di un anno era stato assegnato il compito di completare la decorazione della cappella Paolina in Vaticano, una committenza che portava con sé l’enorme onore di proseguire il lavoro di Michelangelo, considerato apice delle arti tutte, trionfatore sulle personalità artistiche antiche e moderne.
Questo successo aveva suscitato le invidie di molti artisti, specialmente bolognesi – conterranei del papa in un’epoca in cui la comune provenienza geografica aveva un certo valore conglomerante e associativo anche in funzione corporativa – i quali, quando Zuccari espose il suo cartone diffamatorio rivolto contro un personaggio caro al papa colsero l’occasione per tentare di arrestarne la preoccupante (dal loro punto di vista) ascesa e sbarazzarsi di un ingombrante rivale.
Zuccari e il suo collaboratore Passignano – il quale diversamente dal maestro (per il quale fu pagata la cauzione) dovette restare in prigione durante i giorni degli interrogatori – furono giudicati colpevoli.
La pena fu durissima: banditi dallo stato della Chiesa, avrebbero dovuto lasciare la città in tempi insolitamente veloci, entro quattro giorni.
Si crede che la severità della pena e la rigida urgenza con la quale venne loro imposto di metterla in pratica siano stati dovuti sia al fatto che l’offesa avesse riguardato un uomo vicino al pontefice sia alla recentissima emanazione (1580) del nuovo Statuto di Roma, in base al quale erano state inasprite le pene proprio per quei crimini nei quali la dimensione pubblica svolgeva un ruolo preponderante: la calunnia, se pubblica, moltiplicava esponenzialmente la diffusione della cattiva fama del suo bersaglio, aumentandone proporzionalmente gli effetti negativi.
Il pontefice e i suoi collaboratori giudiziari avevano dunque ritenuto opportuno punire più severamente i reati nei quali l’offesa era avvenuta pubblicamente e quale migliore occasione, per mettere in pratica questa rinnovata disciplina, di una querelle personale alimentata da gelosie professionali?