Conservata nella “città in forma di palazzo” che è il palazzo ducale di Urbino, ospitante la collezione della Galleria Nazionale delle Marche, è una tela alta ben più di due metri la cui composta magniloquenza invita il visitatore a rallentare il passo, a fermarsi di fronte alla visione in essa rappresentata e attraverso i gradini in primo piano addentrarsi passo dopo passo nella coltre che la avvolge.
Si tratta della Visione di Santa Francesca Romana, tela realizzata dal pisano Orazio Gentileschi per gli olivetani della chiesa di Santa Caterina Martire a Fabriano.
Il dipinto, datato 1618-20, racconta una storia risalente al 1431, quando a Francesca Bussa de’ Leoni, la mistica che sarebbe poi divenuta santa, apparve nel bel mezzo della messa che si stava svolgendo in S. Cecilia la Vergine, ammantata di luce dorata, e il Bambino in braccio a lei; un angelo avrebbe condotto la donna più vicino ai due e il neonato avrebbe iniziato a giocare con la santa, la quale però ogni volta che tentava di prenderlo in braccio si sarebbe ritrovata ad abbracciare l’aria.
Il racconto ha due fonti precise, sicuramente note al pittore cinque-seicentesco: il confessore della santa, nonché suo primo biografo, Giovanni Mattiotti e fra’ Ippolito da Roma. Orazio Gentileschi, perfettamente in tono con la prassi pittorica della Controriforma, si attiene attentamente alle fonti agiografiche; la Chiesa chiedeva infatti ai pittori che volessero compiacerla di creare un racconto per immagini che potesse insegnare la storia della Salvezza a coloro che non la conoscevano e confermare nelle loro credenze coloro che invece ne erano edotti: la pittura doveva far fede.
L’irruzione del divino nel quotidiano è raccontata come una quieta corrispondenza tra la santa e le figure divine che con gravità pacata la accolgono e ne indirizzano l’attenzione. La Vergine con il suo abito rosso cattura lo sguardo dell’osservatore, ma le sue braccia protese lo convogliano immediatamente verso suo Figlio, il quale infine ci fa tornare con i piedi per terra, alla santa e al suo esistere storico: l’abbigliamento – la veste nera con il velo bianco – fa riferimento all’istituto religioso delle Oblate di Tor de’ Specchi, da lei fondato nel 1433; il libro delle preghiere abbandonato a terra ci riporta alla funzione religiosa dalla quale la santa è stata rapita; i suoi piedi, che calzano realistiche pantofole, poggiano su gradini la cui appartenenza al regno delle cose concrete è suggerita dalle crepe e dalle giunture che li attraversano, ben distinti, nella loro materialità accentuata, dalla gloria nebbiosa e dorata che pare aprirsi alle spalle della Vergine, oltre la nuvola di fumo che lambisce la scalinata – quasi una rappresentazione dell’annebbiamento della santa, del celarsi momentaneo, ai suoi occhi presi da una visione altra, di ciò che la vista le mostrava fino a poco prima e che ora è relegato ai margini della sua percezione sensoriale.
A destra – speculare al turbine ultraterreno frutto della devota immaginazione della santa e da esso separato dal fumo grigio che distingue la realtà dal sogno – un drappo verde ribadisce con la sua illuminazione naturale la dimensione terrena nella quale la santa, benché lontana col pensiero, ancora si trova: è lo spazio nel quale sono il libro, i gradini, le pantofole e anche lo spettatore, invitato ad avvicinarsi a sua volta ai verosimili gradini, esasperati nella loro apparente tangibilità e illuminati dalla medesima luce che si posa con egual naturalezza anche sul drappo verde e sulle scarpe della santa, per unirsi alla contemplazione della scena ultraterrena della quale fanno parte l’innaturale bagliore dorato, che irrompe uniforme da sinistra, e il paradosso fisico del peso della solida Vergine impossibilmente sostenuto dal volatile sedile fatto di vapori.