A pochi giorni di distanza dalla commemorazione della tragica mattina del 16 ottobre e del rastrellamento del Portico di Ottavia, si vuole cogliere l’occasione per ricordare un episodio che molti storici considerano come il capostipite dell’antisemitismo moderno: l’ “Affaire Dreyfus”, che sconvolse l’opinione pubblica della Francia della III Repubblica per 20 anni a cavallo fra il conflitto franco-prussiano e la Grande Guerra.
Il conflitto franco-prussiano del 1870 aveva visto capitolare Parigi, e il relativo trattato di pace aveva previsto la cessione alla Prussia da parte della Francia della Lorena e dell’Alsazia. Proprio da quest’ultima regione proveniva Alfred Dreyfus, giovane generale ebreo che, scelta la nazionalità francese e animato da un forte sentimento di Revanchismo, aveva iniziato la carriera militare con profitto, superando il tradizionale ostracismo antisemita tipico dei corpi militari francesi in quel periodo storico. Il 26 settembre 1894 egli venne accusato ingiustamente di alto tradimento e spionaggio: fu degradato e condannato con un processo sommario, in assenza di prove, e deportato in una colonia francese (l’isola del diavolo) ai lavori forzati. Secondo le accuse, Dreyfus avrebbe elaborato delle note sugli armamenti francesi dirette allo Stato Maggiore tedesco: si diffuse così fra le masse l’idea di un complotto ebraico ai danni della nazione, fomentata da alcuni politici e da molti giornalisti. Inizialmente l’opinione pubblica, aizzata dall’antisemitismo dilagante, assunse un atteggiamento forcaiolo e accusatore, ma grazie all’opera di sensibilizzazione di alcuni intellettuali con in testa Emil Zola e il suo celebre “J’Accuse” si iniziò a diffondere il sospetto che Dreyfus fosse innocente.
Dreyfus, che in tutta la vicenda si è sempre orgogliosamente proclamato innocente e patriota, si vide resa giustizia dopo 12 anni di sofferenze: dopo un’altra sentenza di condanna nel 1899 e la successiva grazia concessagli dal Presidente della Repubblica Loubet, egli venne pienamente riabilitato solo nel 1906 e reinserito nell’esercito con il grado di Capo Squadrone, continuando a servire la nazione che lo aveva ingiustamente condannato fino al 1935, anno della sua morte. Si scoprì che le prove a suo carico erano state artefatte da alcuni suoi superiori “per il bene della Nazione”.
L’attualità dell’Affaire, e il suo essere il primo passo verso le atrocità del Secolo Breve, è stata sottolineata anche da Indro Montanelli: «fu soprattutto il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l’Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata. Allora, grazie soprattutto alla libertà di stampa che smascherò l’infame complotto, quei rigurgiti furono soffocati. Ma la vittoria dell’antirazzismo, che lì per lì sembrò definitiva, fu […] soltanto momentanea. Le cronache di oggi dimostrano che nemmeno i forni crematori dell’Olocausto sono riusciti a liberarci dal mostro che si annida nel subconscio delle società […] cristiane, e che proprio nell’affare Dreyfus diede la misura più eloquente della sua abiezione».