Nel novero dei libri da leggere, segnaliamo L’alfabeto della moda, edito da Carocci, della giornalista e storica della moda Sofia Gnoli. Il volume raccoglie in ordine alfabetico gli articoli scritti negli anni per “Venerdì” e per “Repubblica”. Ad impreziosire il volume contribuiscono le eleganti illustrazioni di Aldo Sacchetti. Chi desideri scoprire i segreti e gli aneddoti intorno ad oggetti simbolo della moda, potrà certamente apprezzare la leggerezza con cui l’autrice imprime rapide pennellate di stile al racconto. Alla lettera B, troviamo ad esempio la parola Bijou, e così scopriamo che Coco Chanel ebbe a dire che “Niente somiglia a un gioiello falso quanto un bellissimo gioiello”. Gnoli sottolinea come proprio la bigiotteria sia tornata di moda in questo nostro tempo, segnato dalla assenza di arbitri di eleganza e di linee di indirizzo precise in fatto di stile, citando Roland Barthes: “il bijou è un nonnulla che regna sul vestito, non perché è prezioso in sé, ma perché concorre in maniera decisiva a renderlo significante”. Moda e società assomigliano ad un sistema di vasi comunicanti, come intuì Chanel quando nel 1926 creò le petite robe noire (vedi la voce Tubino Nero), il capo di abbigliamento che forse più di ogni altro concilia eleganza e praticità. Colpì nel segno poiché riuscì ad interpretare prima degli altri i cambiamenti in atto nella condizione femminile e riscosse un tale clamore che Vogue Paris definì il tubino nero come “l’abito che tutto il mondo indosserà”. Negli anni Sessanta, la minigonna rappresentò un simbolo di liberazione per le ragazze che idolatravano la designer inglese Mary Quant. Un simbolo nato nelle strade della Swinging London e che si diffuse rapidamente in tutto l’Occidente, tant’è che Lietta Tornabuoni scrisse sulle pagine dell’Espresso: “il rilancio della gamba, la voga del ginocchio, la scoperta della coscia, lo short cut sono nati a Londra, anche i sarti più sciovinisti e meno onesti sono costretti ad ammetterlo”. La messa in discussione dei confini tra i generi inizia ben prima della cosiddetta moda genderless o a-gender, basti ricordare una diva del cinema (vedi la voce Garçonne) come Marlene Dietrich nel film Venere Bionda (1932), l’unica secondo Giorgio Armani “ad avere una propensione all’androgino che non scade mai nel travestitismo. Di questo lei è stata pioniera nella vita, io nella moda prendendo dal guardaroba maschile tanti elementi che ho tradotto al femminile. Marlene portava con superba eleganza la giacca-tailleur, il cappotto maschile, i pantaloni larghi: tutti pezzi che hanno contribuito a definire il mio concetto di stile”. Gnoli sottolinea come lungo tutto il Novecento, anche grazie al genio di precursori come Chanel e Yves Saint Laurent, abbiamo assistito ad una metamorfosi del dress code, in particolare durante gli anni della contestazione: “Allora – Diane Keaton di Io e Annie (1977) insegna – il dress code è cambiato una volta per tutte e i pantaloni, insieme alla camicia maschile, al gilet, al blazer e allo smoking hanno smesso di far parte del guardaroba di stravaganti signore per entrare negli armadi di milioni di donne, coniugando comodità e seduzione”. Confrontando il passato con il presente, si può dire che, al giorno di oggi, la moda assomigli ad un grande supermarket degli stili, dove tutto è consentito. Nell’epoca dei social network, degli influencer, della cosiddetta fast fashion, sembra sia scemato il potere di fascinazione della moda che, negli anni Cinquanta e Sessanta, veniva amplificato dal cinema. Nell’Alfabeto della moda troviamo spesso menzionate attrici come Greta Garbo, Rita Hayworth, Grace Kelly, Catherine Deneuve, insomma quell’Olimpo di dee dello stile che oggi ricordiamo con un pizzico di nostalgia.