Se le credenze ansiose si modificano meglio una volta che sia ricostruita la loro storia è un quesito affrontato da Sandra Sassaroli in un noto volume intitolato Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento (Raffaello Cortina, Milano, 2006). Per poter correttamente impostare la questione, però, bisognerebbe muovere da una prospettiva antropologico-filosofica e non medica, per chiarire preliminarmente alcuni punti di forte rilevanza per la tematica affrontata. La risposta alla domanda posta più sopra circa la ricostruzione della storia delle credenze ansiose dipende da una domanda ancor più generale e direi più fondamentale, relativa alla natura stessa dell’essere umano. L’uomo infatti non è una monade isolata che vive indipendentemente da tutto, ma al contrario si pone in profonda interconnessione con l’ambiente fisico e sociale fin dai primi istanti di vita. Costituendosi fin dal principio come sistema aperto l’uomo realizza la sua predisposizione alla relazionalità con un continuo scambio di informazioni (che gradualmente si fa sempre più raffinato e complesso) introiettando tutta una serie di ‘istruzioni implicite’ relative a usanze e linguaggi, strategie comportamentali e valori (etici, estetici, religiosi, esistenziali, alimentari) e tradizioni proprie dell’ambiente socio-familiare, educativo e professionale in cui si trova collocato. Tali ‘istruzioni implicite’, una volta introiettate, vengono poi usate dal soggetto in modo più o meno consapevole nelle varie fasi della sua vita (non si dimentichi, infatti, che l’essere umano è essenzialmente evolutivo e trasformativo) rivelandosi più o meno adattive, funzionali ed efficienti. È assai difficile – e talvolta anche impossibile – ricostruire minuziosamente il momento, le modalità e le dinamiche precise dell’introiezione delle ‘istruzioni implicite’, ma difatti è innegabile che una genesi esiste e che perlomeno in linea teorica e di principio, una loro ricostruzione sia possibile. Solitamente a tale ricostruzione si arriva soltanto quando le ‘istruzioni implicite’ introiettate risultano disadattive e potenzialmente patogene, altrimenti – fatta eccezione per esigenze specifiche – la loro genesi non assume particolare rilevanza esistenziale. L’insieme di tali ‘istruzioni’, tuttavia si configurano sempre come il limite massimo dell’orizzonte cognitivo, percettivo ed emotivo del soggetto. È come se, detto in altri termini, questo enorme bagaglio di informazioni introiettate determinasse il modo stesso dello stare al mondo del soggetto, costituendosi come unica modalità di cognitiva e percettiva. Da questa prospettiva la ricostruzione delle credenze ansiose – o sarebbe meglio dire ansiogene – del soggetto assume sempre una certa importanza, nella misura in cui tutto il lavorio di ricostruzione psicoterapeutico avrebbe come vantaggio (sebbene non sia l’unico, sia chiaro) quello di mostrare al soggetto che il suo modo di pensare e di sentire, lungi dall’essere l’unico valido è invece il frutto di un processo di apprendimento, ben collocabile nella sua storia personale e autobiografica, e che quindi è possibile disimpararlo, criticarlo e testarlo. La ricostruzione, infatti, ha come risultato quello di disvelare al soggetto la relatività della sua architettura cognitiva, e quindi anche la sua potenziale pericolosità ai fini dell’adattamento sociale e della funzionalità del suo assetto mentale. Queste considerazioni non hanno certo la pretesa di porsi come orientamento dell’effettiva pratica psicoterapeutica. Al contrario, vogliono essere soltanto una riflessione più generale (antropologica e filosofica, non medico-terapeutica) sulla natura dell’essere umano. Che poi da tali considerazioni sia possibile estrapolare la conclusione – aperta certamente ad ulteriori integrazioni – della necessità di una ricostruzione della storia delle credenze ansiogene è una verità che non nego, e che anzi promuovo, ma sulla base, lo ribadisco, di riflessioni filosofiche e non cliniche. D’altra parte mi sembra che non si possa ignorare il fatto che un certo assetto mentale sia il frutto della sintesi, più o meno riuscita, tra predisposizioni biologiche e genetiche e vissuti esperienziali (relazioni, formazione culturale, vita familiare, esperienze significative, contesto socio-ambientale e religioso). La personalità è quindi la risultante di una polarità dialettica tra un versante plastico e duttile, ma non completamente modificabile (dimensione neurobiologica) e un versante invece modificabile, ristrutturabile e soprattutto relativizzabile. Sulla base di questa profonda modificabilità dell’assetto mentale e dei costrutti cognitivi la ricostruzione storica della loro interiorizzazione, lungi dal presentarsi come una inutile – e dannosa – manovra terapeutica è invece un modo per rendere chiaro al soggetto stesso che il suo modo di percepire e di pensare è uno fra i tanti possibili.