È notizia comune che Leonardo da Vinci, ricercatissimo dai committenti di tutta Europa, fosse un vero e proprio incubo per tutti coloro che riuscivano a metterlo a contratto.
Lavorava con perizia, meditando attentamente ciascuna pennellata e modificando con cura certosina dettagli, espressioni, atteggiamenti e pose. Stendeva il colore per velature successive, studiava la natura e tentava di riprodurla in modo convincente, dal più minuto dei particolari fino all’orizzonte, dalla polvere sollevata dal terreno al pulviscolo atmosferico.
Il prezzo di tanta perizia – che i committenti erano disposti, per quanto possibile, a pagare, in virtù del risultato artistico, che sarebbe stato mirabile – era il tempo necessario all’esecuzione, che finiva sempre col moltiplicarsi rispetto alla consegna prevista al momento della commissione.
Tra coloro che hanno sperimentato l’estrema lentezza e gli infiniti ritardi del Maestro nativo di Vinci vi furono anche i frati del Convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. Il duca Ludovico il Moro aveva acquisito alla sua corte il celebre pittore, ingegnere, scienziato, architetto, trattatista – e la lista potrebbe continuare – nel 1482, in seguito alla celebre lettera in cui Leonardo enumera le sue numerosissime competenze, in primis quelle militari che al bellicoso Ludovico Sforza riuscivano particolarmente gradite.
Tra le molte opere commissionate dal duca a Leonardo c’è anche un affresco raffigurante l’Ultima Cena di Cristo con i dodici Apostoli per il refettorio del Convento da lui finanziato e patrocinato; il tema decorativo era quello che tipicamente veniva scelto per questo ambiente, nel quale i frati si riunivano per consumare i loro pasti.
Del modus operandi adottato da Leonardo nella realizzazione di questo affresco abbiamo una testimonianza diretta ad opera di Matteo Bandello, che ebbe occasione di osservare in prima persona (“et io l’ho più volte veduto e considerato”) l’agire pittorico leonardesco e descrisse le bizzarrie e le finezze del suo operare: era solito, racconta, andare di buon’ora sul ponteggio, e dipingere “dal nascente sole sino all’imbrunita sera” senza mai posare il pennello, senza mangiare né bere, poi sparire per due, tre, quattro giorni, salvo recarsi per una o due ore al giorno per esaminare l’affresco, studiare il suo lavoro; altre volte, secondo “capriccio o ghiribizzo”, capitava che arrivasse a Mezzogiorno (andando da un cantiere all’altro), che desse una o due pennellate al Cenacolo e che se ne andasse altrettanto in fretta.