Tutti abbiamo familiarità con in classico Disney La Bella e la Bestia del 1991: le atmosfere invernali, il villaggio francese, il salone da ballo con l’immensa scala, i libri di Belle e, naturalmente, la rosa, simulacro della maledizione del principe, nella sua iconica campana di vetro.
Tanto è radicato nei ricordi di coloro che allora erano bambini che nel 2017, la Disney, ha realizzato un live action del cartone animato con qualche modifica alla trama, una riproduzione quasi maniacale di costumi e scenografie e un cast hollywoodiano che tra i protagonisti annoverava Emma Watson (la Hermione dei vari Harry Potter) nel ruolo di Belle e Luke Evans nei panni di Gaston.
L’origine della favola, però, non è idilliaco come le canzoni e il lieto fine tipicamente disneyani farebbero immaginare.
La prima versione della storia risale al 1740: l’autrice è Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve e le differenze con la favola che molti di noi hanno conosciuto consumando la videocassetta sono molte e riguardano soprattutto quello che potremmo definire il background dei personaggi: Belle è una principessa costretta a fuggire dalle insidie di una fata dalla casa paterna (una sorta di matrigna cattiva che in queste storie pare non poter mancare); il mercante dal quale viene “adottata” perde le sue ricchezze in un naufragio ed è incapace di portare alle figlie i doni promessi; anche in questo caso la giovane Belle aveva chiesto una rosa e proprio nel coglierla il mercante si imbatte nella Bestia, che gli chiede una delle sue figlie in cambio della salvezza e di un baule carico di ricchezze. In questa prima versione la fata che aveva cresciuto il principe, orfano di padre, lo trasforma in una bestia non per insegnargli una lezione ma per vendicarsi del mancato cedimento di lui ai suoi tentativi di seduzione. Anche in questa storia, sebbene con molti personaggi, apparizioni in sogno e decisamente troppe fate, Belle impara ad amare il suo mostruoso coinquilino.
La versione dalla quale è direttamente tratta la favola Disney è però un’altra, quella scritta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont; pubblicata nel 1756 e già nel 1757 tradotta in inglese. L’immediato successo di questa nuova versione non sorprende: l’autrice semplifica la cupa ed intricata storia pubblicata 14 anni prima, eliminando le storie familiari dei due protagonisti e caratterizzando in modo preciso (e semplicistico) i personaggi, connotando per esempio Belle – che naturalmente non può mancare di essere non solo la più giovane ma anche la più bella dei personaggi femminili – come umile, remissiva e pura d’animo, in contrapposizione alle sue sorelle più grandi che sono invece vanitose e presuntuose.
Tutto ciò permette all’autrice di conferire alla favola un deciso carattere pedagogico. Lo scopo di questo racconto era infatti quello di educare le giovani prossime al matrimonio. Le nozze, ricordiamo, non erano allora, come sono oggi (sebbene non in ogni parte del mondo), una scelta sentimentale, ma una faccenda economica: non l’unione di due persone ma un contratto stipulato tra le famiglie degli sposi di cui la sposa, al pari della dote, non era che una clausola.
Lo sposo, scelto dal padre su basi puramente economiche e sociali, era generalmente molto più anziano delle ragazzine appena adolescenti che avrebbero dovuto sposarlo; a queste giovani acerbe e spaventate l’idea di dover consumare le nozze e andare a vivere con questo sconosciuto al quale avrebbero dovuto obbedire non doveva apparire tanto diversa dalla convivenza con un vero e proprio mostro.
Madame Leprince de Beaumont si faceva consapevolmente o meno interprete di una società che incoraggiava queste poco più che bambine a farsi forza, ad essere gentili e obbedienti, a comportarsi in modo appropriato nella casa, ignota e per nulla familiare, nella quale sarebbero andate ad abitare, a compiacere “la bestia” che avrebbe vissuto con loro, perché poi un giorno, guardandoli con occhi arrendevoli, avrebbero potuto vedere in loro dei principi. Tutto questo, naturalmente, solo se fossero state all’altezza del loro ruolo di mogli: belle, silenziose, obbedienti.
Dietro ad una storia come questa, che incanta le bambine per le musiche e i colori, che le trae in inganno con la lusinga dell’intelligenza – Belle non è vanitosa come le sue sorelle, non è innamorata di Gaston come tutte le ragazze del villaggio, non passa il tempo a far chiacchiere come le altre donne, è una lettrice – intelligenza che, però, è davvero solo un accessorio, al pari del fiocco che porta tra i capelli – il merito di Belle, infatti, stando allo svolgimento della storia, sta nella sua sottomissione alle regole dettate dalla Bestia e alla sua capacità di accudirlo – dietro ad una storia come questa c’è un’epoca di bambine spaventate, di totale mancanza di consenso, di mariti fin troppo anziani e nella maggioranza dei casi duri, autoritari, di giovani ragazze alle quali veniva detto che dal loro comportamento, e non da quello del marito, sarebbe dipesa la loro tranquillità domestica, che loro avrebbero dovuto, con le cure e con il perdono, convincere loro stesse che quel mostro che era stato messo loro non accanto ma al di sopra avrebbero dovuto farselo andar bene e che, con la pazienza – che non a caso è stata in ogni secolo esaltata come una delle virtù più desiderabili in una donna – avrebbero imparato a sopportare, a normalizzare e, infine, a non riconoscere più la bestia.