Una storia d’amore lunga secoli è tornata a brillare in una veste del tutto inedita, frutto del riadattamento compiuto da Matthew Bourne. Ambientato nel Verona Institute, un ospedale psichiatrico per giovani pazienti narrato in tutta la sua brutalità -in grado di trasformarlo sia nell’immaginario degli spettatori che sul palco, in un vero e proprio carcere- questa rielaborazione del classico di Shakespeare “Romeo e Giulietta” ha il dono della trasversalità.
A partire dal fortunato debutto nel 2019, il “Romeo + Juliet” secondo il coreografo inglese non ha ancora smesso di comunicare le passioni e le vulnerabilità dei giovani amori anche a un pubblico inesperto di danza. Attraverso movimenti fluidi talvolta infranti dalle ingiustizie di un mondo che vuole i propri figli più giovani etichettati e segregati in nome di una vana normalità, la narrazione di un sentimento puro e tragico la cui vitalità resta senza tempo si dispiega e amplifica grazie alle composizioni di Sergej Prokofiev. Ne risulta un’opera universale nel tempo e nello spazio, resa tale dal linguaggio comune dell’emozione e dell’armonia, che si intrecciano omaggiando anche la storia del balletto, del quale Prokofiev curò musiche e coreografie nel 1932 per il teatro Kirov di Leningrado.
La tragedia si svolge in un contesto alienato, rappresentato da una scenografia minimale e asettica che comunica efficacemente lo stato di separazione dei giovani ospiti della struttura dal mondo esterno, dalle loro famiglie, oltre che dai loro stessi simili all’interno della casa di cura. L’abuso di potere esercitato dalla guardia carceraria la cui morte dà inizio alla concatenazione di eventi che porteranno alla morte dei due innamorati è un vivido e inatteso colpo di scena in grado di stabilire tra l’opera del 1594 e i nostri giorni un legame drammatico e del tutto riuscito, sebbene non manchino scene di commozione e rivalsa -talvolta dolcemente ironiche- che stabiliscono tra il cast e i singoli spettatori una coinvolgente intesa che nasce nel nome della solidarietà e dell’identificazione, in un movimento di riscoperta di quel sentimento intrinsecamente umano che gli antichi greci chiamavano sympatheia.
Ciò accade ad esempio durante la scena della festa quando, dopo un breve momento di esitazione, tutti i ragazzi richiusi nella struttura come fossero -e lo sono profondamente- prigionieri strappano ai loro giorni da degenti alcuni momenti di spensieratezza e sincera gioia: finalmente vitali quanto avrebbero sempre voluto essere, danzano mischiandosi tra maschi e femmine, in un’ebbrezza che è l’essenza stessa della vitalità.
In una sinfonia di tormenti e speranze, l’opera “Romeo+Juliet” di Matthew Bourne si fa portatrice di un dramma senza tempo, in cui a pagare il fio della perversione di una società ormai immalignita sono proprio i figli più puri di quest’ultima: irriducibili sognatori di un futuro che non li vuole.