Sembra che niente sia davvero cambiato rispetto al passato, eppure, in verità, nulla è rimasto uguale. “Matrix Resurrections”, il quarto capitolo della celeberrima serie firmata dalle ormai sorelle Wachowski, si pone in un immediato confronto con il passato, facendo scontrare lo spettatore in un’ambientazione diversa ma assolutamente familiare. L’iconica patina verde che accompagnava la trilogia classica è assente; in compenso, i luoghi protagonisti delle scene topiche del primo film sono pressoché intatti.
Neo appare totalmente smarrito in questo nuovo mondo: la vita gli scorre davanti passivamente, come se stesse nel corpo di un’altra persona. Quando avrà l’occasione di divenire di nuovo padrone del proprio libero arbitrio, il suo atteggiamento sperduto non abbandonerà il personaggio, per quanto illuminato da brevi barlumi di caparbietà ogni qualvolta si citi il nome dell’amata Trinity.
Protagonista senza esserlo davvero, Eletto ma non troppo, leggenda vivente che dovrebbe essere solo un mito da raccontare ai posteri: del vecchio Neo è rimasto solo il nome con pochi flashback, e tutto il suo immenso Amore, il vero motore della storia. Le immagini tratte dai film precedenti condiscono le scenografie dell’ultimo capitolo: una firma d’autore, un monito, una sfida, o forse altro?
Non cade nel silenzio la vena parodica, a tratti ironica, che attraversa con una certa costanza l’intero svolgersi della trama. Che nella paura di fallire Lana Wachowski abbia deciso di usare questo espediente per tentare una via di fuga? Può darsi: l’umorismo non è mancato nei film precedenti, ma questo contro-canto su un Neo ridotto a macchietta di sé stesso ha tutt’altro sapore dolceamaro. Indecisa se concedermi una risata finale o un sospiro di malinconia, mi chiedo se questo sia stato davvero il massimo ottenibile dal quarto capitolo, portando in luce la fatidica domanda: era davvero necessario?