Nel 590 d.C. la peste si era abbattuta sulla città di Roma. Il Tevere, esondando, ne aveva favorito la diffusione e molti erano caduti vittime del contagio; tra questi vi era anche il papa Pelagio II.
A succedergli al soglio pontificio fu Gregorio I, il quale successivamente meritò l’appellativo di Magno, il quale decise di rispondere all’epidemia in modo se non scientifico o efficace certamente scenografico: organizzò per il giorno di Pasqua una processione che, attraversando Roma in preghiera, sortisse l’effetto di muovere a pietà il divino, affinché intervenisse per interrompere i contagi e ripristinare dopo i molti mesi di sofferenza la salute della città.
La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine racconta che durante questa marcia pasquale venne portata in processione un’icona della Vergine – forse la Salus populi romani di S. Maria Maggiore, di fronte alla quale, secondo fonti precedenti alla Legenda Aurea, la processione si sarebbe conclusa – che si credeva dipinta da S. Luca, evangelista e pittore secondo la tradizione.
Sempre secondo il racconto, al passare dell’immagine sacra l’aria si purificava e, giunti al ponte Elio, di fronte al mausoleo dell’imperatore Adriano, la folla avrebbe assistito ad una visione: sulla cima della mole adrianea sarebbe apparso un coro di angeli che inneggiava alla Vergine come Regina Coeli e, sempre in cima all’edificio, sarebbe comparso anche l’arcangelo Michele il quale, di fronte agli occhi dei romani avrebbe rinfoderato la spada allontanando la peste dalla città.
In seguito a questo evento miracoloso l’edificio di età imperiale cambiò nome divenendo Castel Sant’Angelo. Sulla sua cima ancora oggi svetta una statua dell’Arcangelo guerriero, figura alata come una Vittoria che veglia sull’Urbe: lì collocata come ricordo di questo mito e dell’intervento celeste che avrebbe salvato la città al contempo essa la celebra come favorita – o, nel caso della Roma cristiana, benedetta – dalle divinità, siano esse pagane o cattoliche, proseguendo idealmente la lunga tradizione di elogi letterari che parlano di Roma come città divina, beata, quasi immortale, dalla quale gli stessi dei sembrano non riuscire a distogliere lo sguardo.