Nell’immaginario collettivo, il terrorismo è l’autocarro lanciato come una dinamo impazzita contro i passanti vicino la promenade des Anglais a Nizza; è l’attentato al museo nazionale del Bardo, a Tunisi, che è costato la vita a ventiquattro individui; è l’irriverente Charlie Hebdo con la sua libertà di stampa calpestata. Il “terrore” che, per sua stessa natura, la parola “terrorismo” evoca è presente in noi sotto forma di immagini, suoni e ricordi indelebili.
Ma se qualcuno ci dicesse che, smettendo di parlarne, il terrorismo non esisterebbe più? Se fossero i telegiornali, le emittenti televisive e, più in generale, i mezzi di informazione a pompare il sangue nelle vene di un fenomeno che, altrimenti, avrebbe già esalato il suo ultimo respiro?
“Se non fosse notato, il terrorismo non esisterebbe”: un’affermazione caustica, quella di Mark Juergensmeyer, che ha il merito però di costringerci a riflettere. Le organizzazioni terroristiche agiscono con il preciso intento di lanciare un messaggio che, a prescindere dal contenuto, inerisce sempre una modifica della situazione vigente e necessita di essere fruibile a quanti più destinatari possibili. Una relazione di questo tipo, tra un mittente-terrorista e un destinatario-cittadino, richiede un medium che, a ben vedere, è rappresentato proprio dai mezzi di informazione, “colpevoli” solo di fare il proprio lavoro. Per dirla con Enrico De Angelis, “l’emergere della globalizzazione delle comunicazioni crea un palcoscenico inedito per il terrorismo internazionale”, al punto che gli attentatori sembrano trarre linfa vitale proprio dalla copertura che social media e media tradizionali garantiscono alle loro azioni; in quest’ottica, attentati, omicidi e violenze su larga scala altro non sarebbero se non il canale privilegiato per la trasmissione del messaggio.
Odiosa ma per alcuni inevitabile la conclusione di questa riflessione: come suggerisce Alex Schmid, se la risonanza di cui godono le azioni terroristiche è assicurata da una massiccia copertura mediatica, i mezzi di comunicazione, nell’innocuo esercizio della propria libertà di espressione, potrebbero spaventosamente assurgere a corresponsabili di un perpetrato sistema di crimini e brutalità. Non che si tratti di una novità per i governi: già nel 1974, infatti, la Gran Bretagna era diventata la patria del Prevention of Terrorism Act, il cui scopo era quello di impedire che notizie riguardanti le cellule terroristiche venissero tenute all’oscuro delle forze dell’ordine. Un atto, questo, che si tradusse subito in un vero e proprio ostacolo, soprattutto per le emittenti televisive, che non potevano più organizzare interviste ai terroristi senza prima cedere al governo informazioni riguardanti il luogo e la data dell’incontro.
Di conseguenza, è lecito ritenere che se i mezzi di comunicazione di massa non esistessero, parimenti non esisterebbe il terrorismo. Una conclusione piuttosto allettante, questa, per i numerosi detrattori della globalizzazione che vedono in essa e nelle sue molteplici ramificazioni la radice di ogni male. Mettere un bavaglio ai mass media, tuttavia, non sembra essere una soluzione praticabile né da un punto di vista etico né tantomeno da un punto di vista concreto: è ancora Enrico De Angelis a specificare, infatti, come il terrorismo possa avere, tra gli altri, anche l’obiettivo di fomentare il risentimento di una società in cui determinate istanze e bisogni non vengono recepiti dai governanti; se così fosse, impedire ai mezzi di comunicazione di far conoscere all’opinione pubblica gli scopi dei terroristi rischierebbe di gettare quella stessa società in un clima incontrollato di aggressività e terrore, scaraventandola de facto nelle mani dei sovversivi. Una censura, d’altra parte, mieterebbe più vittime di quelle che già abbiamo dovuto raccogliere da terra.