Rainer Maria Rilke, poeta boemo di lingua tedesca appartenente alla classe borghese cattolica di Praga, compose “Orpheus. Eurydike. Hermes” nel 1904, una delle ultime poesie del primo volume dei Neue Gedicthe. I versi sembrano prendere forma uscendo direttamente dal marmo della copia romana di età augustea di un bassorilievo attico del V sec. a.C., che ritrae i tre personaggi e che l’autore poteva ammirare al Museo Archeologico di Napoli. La particolarità di questo componimento, rispetto alla vicenda mitica, è il forte senso di straniamento che emerge dall’imperturbabilità di Euridice, completamente pervasa dalla pienezza della morte, tanto da diventare la sua nuova e indecifrabile dimensione, antitetica rispetto alla spinta vitale di Orfeo. La morte, la vita e al centro l’immenso abisso che le separa, lo stesso che divide Orfeo e la Tanto-amata (So-geliebte), Euridice, così apparentemente vicini, tanto da toccarsi, ma in realtà isolati da un immenso vuoto di tempo e spazio. La dimensione ctonia viene rappresentata da Rilke in modo suggestivo e assolutamente vivido, sin dal primo verso appare sulla scena il regno dei morti, questa “prodigiosa miniera delle anime” (der Seelen wunderliches Bergwerk) attraversata da rupi e boschi deformi, in cui si staglia un unico bianco sentiero percorso dai due amanti, accompagnati dall’araldo degli dei. Un luogo dominato dal rosso del sangue che sgorga dagli alberi e dal grigio che ricopre ogni punto del vuoto spazio dove abita l’anima della ninfa Euridice, che ormai si è fatta radice “Sie war schon Wurzel”.