I nostri genitori non ci hanno insegnato a diventare adulti.

Quando si arriva alla soglia dei trent’anni è inevitabile fermarsi a fare un il punto della situazione.

Siamo stati cresciuti con la pretesa che tutto, un giorno, sarebbe stato nostro, solo che ora però è sorto un problema, e cioè pare che l’adolescenza non sia mai finita, e anche chi è riuscito a ottenere un’indipendenza economica e a vivere da solo è attanagliato da una rogna che accomuna un’intera generazione, e cioè essere intrappolato nello status di “figlio”.

I nostri genitori hanno assorbito gli insegnamenti dei nostri nonni, ovvero coloro che hanno ricostruito l’Italia dopo la guerra, annaspando tra le macerie e poi godendosi il boom economico.

Il rapporto genitori-figli di quell’epoca era basato su una prospettiva concreta, ovvero il concetto di “sistemarsi”, il trovare il posto fisso, mentre il problema dei giovani d’oggi risiede nel viere sotto l’ala protettrice della famiglia, che più che preparare il figlio alla strada ha preparato la strada al figlio, e i giovani si trovano così sperduti in un mondo che non conoscono, fatto di responsabilità da cui preferirebbero scappare, e quale modo migliore, se non continuare a rifugiarsi sotto quell’ala.

Secondo i dati l’Istat 7 under 35 su 10 vivono ancora con i genitori, e sempre in quella fascia d’età i matrimoni sono diminuiti del 24% in soli cinque anni, così come sono in calo le nascite.

Certamente un trentenne fatica a potersi permettere un matrimonio, una casa e dei figli, perché la disoccupazione giovanile è una piaga del nostro tempo, ma non rappresenta l’unico motivo di una crescita a rilento, del continuo aggrapparsi a un’adolescenza ormai perduta.

La tendenza del nuovo millennio è quella di protrarre ad libitum l’adolescenza, e in questo processo anche l’università ha avuto un ruolo fondamentale, considerando che gli iscritti hanno superato il 40% dei giovani, e nella maggior parte dei casi i genitori continuano a mantenere i figli, e annesse tasse universitarie, affitti, bollette, spese varie, per un periodo di vita che assomiglia pericolosamente a un prolungamento del liceo, nonostante i sacrifici e i tentativi di indipendenza.

I nostri genitori rappresentano la generazione privilegiata, non hanno vissuto la guerra e la povertà dei loro padri, e hanno schivato la nostra lotta al precariato, ma l’errore in cui sono incappati è stato quello di proteggere eccessivamente i figli, e in questo modo è nata in noi una ritrosia nell’affrontare le difficoltà della vita, e di fronte alle scelte da prendere è entrata in gioco la procrastinazione, la consapevolezza di poter contare sui genitori sempre e comunque, in uno svezzamento infinito.

Arriva però un momento in cui occorre abbandonare la campana di vetro che ci hanno costruito attorno per affrontare il mondo.

C’è chi riduce il tutto alla sindrome di Peter Pan, il rifiuto della crescita, la continua ricerca dei riverberi dell’infanzia, ma questo è determinato dall’educazione imposta dai genitori che, per espiare l’autoritarismo che hanno subito nella loro epoca, hanno assunto un modello permissivo e autoreferenziale, e il loro tentativo di metterci al riparo dalle frustrazioni del mondo ha creato un nucleo familiare figliocentrico, generando un esercito di figli spaesati.

Non lo fanno in malafede, la loro protezione nei nostri confronti è autentica, sincera.

Gli effetti controproducenti dipendono anche dal modo in cui noi ci sediamo sugli allori perché tanto siamo ancora sotto la loro ala, non dobbiamo temere nulla.

Abbiamo trent’anni, e non siamo mai cresciuti veramente, non lo vogliamo noi, e non lo vogliono i nostri genitori.

Continueremo ad andare ai matrimoni degli altri, a conoscere i figli degli amici e non i nostri, a lottare per un’indipendenza che non auspichiamo fino in fondo.

Non fino a quando saremo figli.

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares