Cos’hanno in comune una principessa e patriota italiana e un illuminista francese vissuto un secolo prima? Nulla, verrebbe da dire, ma se la donna in questione è Cristina Trivulzio e il filosofo Montesquieu, tutto cambia. Entrambi furono infatti rivoluzionari negli atti e nel pensiero, artisti della lettura del mondo e strenui avversari degli stereotipi.
Nel 1721, Montesquieu pubblica le sue “Lettere Persiane”, acuto romanzo epistolare incentrato sulle avventure di due viaggiatori persiani alla scoperta della lontana e curiosa Francia di Luigi XIV. I protagonisti, di nome Usbek e Rica, scrivono lettere ai parenti in Oriente per raccontare loro l’eccentricità delle maniere occidentali, la politica e le credenze, la società francese e le sue contraddizioni. Mediante questo espedente, l’autore riflette efficacemente sulla propria cultura e sulle istituzioni che ha sempre conosciuto in maniera scanzonata e irriverente, giustificata dalla sostanziale estraneità dei due viaggiatori al contesto che dipingono nelle loro corrispondenze. Se ne ottiene un racconto realistico e ricco di spunti di riflessione proprio perché ricco di riflessi: ogni elemento che costituisce l’essere francesi, ma soprattutto occidentali, viene messo di fronte allo specchio e studiato per quello che è, con le sue luci ed ombre, senza che alcun cliché ne offuschi le sembianze.
Allo stesso modo, nel 1858, una donna eccezionalmente emancipata di nome Cristina Trivulzio di Belgiojoso, brillante nobile lombarda con il sogno di vedere l’Italia unita e popolata da donne che potessero istruirsi allo stesso modo degli uomini, pubblica, ispirata dall’esilio cui fu costretta in seguito alla partecipazione ai moti rivoluzionari del 1848, una raccolta di tre racconti intitolata “Scene di vita turca”. Attraverso questi brevi romanzi, l’autrice si proponeva di narrare la realtà effettiva -non già quella immaginata sulla scorta dei ciechi pregiudizi occidentali- delle donne in Turchia, Paese che la ospitò per quattro anni in seguito al suo esilio e che la scrittrice italiana poté vivere nella sua interezza. Tra tutti i racconti, è in particolare quello di Emina a raccontare di uno slancio dell’autrice insieme commovente e istintivo: nel raccontare l’esperienza della protagonista e in generale la condizione delle donne negli harem, la scrittrice interviene con annotazioni che talvolta tendono a all’universalità dell’essere donne, oltre ogni stereotipo e frontiera. Tale vocazione si realizza soprattutto attraverso la solidarietà che l’autrice dimostra nei confronti delle sue protagoniste, talmente profonda da confondere il lettore e indurlo a chiedersi se la storia che sta assaporando sia quella di una donna turca, di una scrittrice esule e illuminata o la sua propria di essere umano. Perché se agli occhi di chi ci conosce appariamo per quello che siamo, in quelli di chi s’impegna a vedere il mondo coi nostri colori riscopriamo cosa significhi essere al mondo.