Philip Roth è considerato uno dei più grandi scrittori americani di sempre.
Nato a Newark nel New Jersey il 19 marzo 1933 in una famiglia ebrea piccolo borghese, immigrati di prima generazione, suo padre era un manager assicurativo e la madre una casalinga.
Roth era sempre rimasto legato alla città di Newark, e qui aveva ambientato diversi suoi romanzi, tra cui quelli che compongono la Trilogia americana: Pastorale americana del 1997, Ho sposato un comunista del 1998 e La macchia umana del 2000, tre storie americane ordinarie e insieme tragiche ed esemplari.
Negli ultimi 60 anni Roth scrisse 31 libri tra cui 27 romanzi. L’ultimo, Nemesi, venne pubblicato nel 2010.
Il romanzo che gli fece ottenere il grande successo fu Lamento di Portnoy, pubblicato nel 1969, tragedia e commedia personale.
Nel corso della sua lunga carriera Roth assunse molte forme, principalmente versioni di se stesso, nell’esplorazione di ciò che significa essere un americano, un ebreo, uno scrittore, un uomo. E più di ogni altro scrittore del suo tempo esplorò instancabilmente la sessualità maschile.
Roth vinse moltissimi premi letterari, tra cui due National Book Award per Addio, Columbus e per Il teatro di Sabbath, e il Pulitzer per la narrativa per Pastorale americana, ma non vinse mai il Premio Nobel, una cosa che nel corso degli anni è entrata nell’immaginario comune per significare come una sorta di ingiustizia nei suoi confronti e nella sua grandezza.
Nel 2010 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama gli consegnò la National Humanities Medal, la più importante onorificenza americana per chi ha ampliato la conoscenza della natura e dello spirito umano.
Lo scorso gennaio in un’intervista a Charles McGrath sulle pagine del New York Times aveva affrontato l’argomento della vecchiaia e proprio quello della morte raccontando: «è stupefacente trovarmi ancora qui, alla fine di ogni giornata, andare a letto di notte e pensare sorridendo che ho vissuto un altro giorno, è poi è altrettanto stupefacente risvegliarsi otto ore dopo e vedere che è la mattina di un nuovo giorno, e sono sempre qui. Vado dormire sorridendo e sorridendo mi risveglio. Sono molto felice di essere ancora vivo.
Da quando va così, di settimana in settimana, di mese in mese, da quando sono andato in pensione, mi è nata l’illusione che quest’andazzo non finirà mai, anche se ovviamente lo so che può finire da un momento all’altro. È come un gioco che faccio giorno dopo giorno, un gioco dalla posta molto alta che per ora, contro ogni previsione, continuo a vincere.
Vedremo quanto andrà ancora avanti la mia fortuna».
Philip si è spento lo scorso 22 maggio in un ospedale di Manhattan, a New York, aveva 85 anni
Una delle prime persone che ha confermato la notizia è stata il suo biografo, Blake Bailey, che ha scritto su Twitter: «Stanotte è morto Philip Roth, circondato dai suoi amici di una vita che gli hanno voluto molto bene. Un uomo amato e il nostro più grande scrittore vivente».