Nel momento più tumultuoso della sua storia, Roma vide nascere alcuni tra i più importanti interpreti della sua cultura, uomini, filosofi, poeti, la cui eco risuona ancora nell’anima dei contemporanei. Cicerone, Giulio Cesare, Catullo non sono solo grandi autori, sono pietre miliari, totem della cosiddetta cultura occidentale ma, forse, sarebbe meglio dire della cultura tout court. A questa straordinaria generazione appartengono anche, Tito Lucrezio Caro e Publio Virgilio Marone. Il secondo non ha bisogno di presentazioni, è l’autore dell’Eneide, il cantore delle armi e dell’uomo, l’architetto del mito di Roma imperiale, il bardo di Augusto. L’altro, invece, se si eccettuano reminiscenze scolastiche, rimane sconosciuto. È l’autore di un oscuro, difficile e grandioso poema sulla natura, il De rerum natura, meraviglioso capolavoro che parla dell’anima, della realtà fisica e metafisica, della religione, degli atomi che costituiscono ogni cosa, dell’uomo e della morte. Tutto è filtrato attraverso la dottrina di Epicuro, filosofo greco di età ellenistica, che predicava il distacco dalle passioni, in nome dell’abbandono e della superstizione e del trionfo della verità. Insomma, si potrebbe dire, due figure che non potrebbero essere più diverse, e invece no. Alcuni studiosi “vecchia scuola” potrebbero trovarsi in ambasce nel constatare quanto epicureismo ci sia nei versi di Virgilio, il poeta da molti considerato il portavoce della religiosità tradizionale, dei valori del mos maiorum, la migliore cassa di risonanza della propaganda politica di Ottaviano, ormai divenuto Augusto. La dottrina eretica del filosofo di Samo pervade l’opera virgiliana e, in particolare, le Georgiche che, da un certo punto di vista, sono la sua prova più importante. De, infatti, l’Eneide è il suo capolavoro (e forse il capolavoro dell’intera letteratura latina), è nelle Georgiche che Virgilio compie il passo decisivo per trasformarsi dall’autore delle Bucoliche, un poeta ellenistico, nel più grande interprete della sua cultura, nella guida scelta da Dante nel suo viaggio ultraterreno. Così, se un tuono, per Epicuro è il fenomeno scaturito da un complesso movimento e scontro di atomi di diversa natura, per Virgilio esso non può che essere l’evidenza della volontà divina; anche quando Lucrezio irride la gloria terrena degli Scipioni, gli eroi nazionali di Roma, Virgilio riesce a rovesciare il suo pinto di vista, esaltando la forza e le qualità belliche dell’uomo italico, incarnate, per l’ennesima volta, nel figlio adottivo di Cesare, quell’Augusto, che sta per diventare il primo princeps di Roma. Infine, resta il poema. Un genere letterario che attraversa i secoli, i cui rigidi schemi ne denunciano la capitale importanza; coì neppure Lucrezio può sfuggire allo schema esametrico, all’ossequio verso i maestri, Omero ed Ennio in primis, anche se essi possono essere annoverato tra i vates, che con la loro poesia hanno alimentato le superstizioni dell’uomo. Allo stesso modo, anche nl poema lucreziano, non può mancare l’eroe, che compie un viaggio, per realizzare il suo destino, come Odisseo, come Enea. Il suo eroe è, naturalmente, Epicuro, che ha compiuto un viaggio metafisico, dalla terra al cielo, per infrangere i moenia mundi, i confini del mondo, che incatenano l’uomo alla terra e alle sue paure. Proprio come un eroe del mito, Epicuro è alla ricerca di qualcosa e, proprio come nell’epica classica, lo scopo è ottenere l’oggetto della ricerca, nel suo caso si tratta della verità. Moltissime altre cose potrebbero essere dette e, per questo, si rimanda alla sterminata bibliografia sull’argomento, esistente in ogni lingua, ma anche con questi pochi dati, è interessante come la soia, in particolare quella della letteratura, a volte avvicini uomini che sembrano inconciliabili: il buono e il cattivo, il giusto e il reprobo ì, il pio e l’eretico, mostrandoci quanto, in realtà, le differenze siano piccole.