Sulle rive del fiume Volturno, alle spalle delle Mainarde, sorgeva il monastero di San Vincenzo. Secondo la tradizione furono tre nobili beneventani – Paldo, Taso e Tado – a fondare, all’inizio dell’VIII secolo, il monastero, desiderosi di un ritiro spirituale dal mondo, di un luogo sacro che potesse accoglierli nella vita ascetica che intendevano condurre.
Il IX secolo fu un momento di straordinaria crescita per il monastero, che si arricchì di terre, proprietà, monaci ed edifici; questa parabola ascendente ebbe inizio con la concessione di privilegi da parte di Carlo Magno, nel 787, e venne architettonicamente sugellata dall’operazione di Giosuè, abate degli anni 792-817, che – contemporaneamente ai lavori del suo collega Gisulfo a Montecassino – ristrutturò (forse con il sostegno economico dell’imperatore Ludovico il Pio) il complesso che – per la prima volta nell’edilizia monastica italiana – venne organizzato secondo uno schema preciso e completo, adatto a rispondere a tutte le esigenze della vita cenobitica: alla metà del secolo, infatti, il monastero contava fabbricati residenziali (sia per i monaci che per gli ospiti), edifici religiosi (gli scavi ne hanno rivelati nove), un dormitorio, un lavatorio (di forma circolare), un refettorio e anche officine artigianali – è bene ricordare infatti che i centri monastici, specialmente quelli di dimensioni considerevoli (come nel caso di S. Vincenzo al Volturno), erano sempre centri non soltanto religiosi e culturali ma anche economici, accentratori e produttori di grandi ricchezze.
Tra gli edifici religiosi di questo complesso c’era la chiesa maggiore di S. Vincenzo, a tre absidi e tre navate divise da colonne, dotata di pavimentazione in opus sectile e preceduta, alla maniera delle basiliche romane paleocristiane, da un atrio quadrangolare; intorno all’anno 820 venne aggiunta, al di sotto dell’abside centrale, una cripta semianulare (forma nata a Roma e il cui archetipo viene tradizionalmente – ma non unanimemente – fatto risalire alla cripta voluta da papa Gregorio Magno per San Pietro in Vaticano) nella quale si conservavano le reliquie di San Vincenzo martire; tra gli affreschi che ornavano la cripta si trovava anche il ritratto dell’abate Giosuè.
Il complesso archeologico di San Vincenzo al Volturno, però, è noto anche per un’altra cripta (quella della chiesa nord): si tratta dell’esempio più completo in Italia di decorazione parietale del IX secolo. Il ciclo di affreschi venne realizzato al tempo di un altro abate, Epifanio (824-842), ritratto ai piedi della croce nella scena della Crocifissione e che l’aureola quadrata contrassegna come ancora vivente al tempo della realizzazione degli affreschi.
Al centro della volta è assiso in trono un Cristo al quale fa subito eco, nella parete absidale, una Maria regina – senza Bambino – che con la mano destra fa un gesto con il quale accetta la missione che le è stata affidata, mentre con l’altra regge il Magnificat, preghiera che celebra l’umiltà con la quale Maria ha risposto affermativamente alla convocazione divina. Il fatto che questa combinazione – Cristo e sua madre regnanti in cielo – compaia per la prima volta qui, non è un caso: Ambrogio Autperto, monaco di S. Vincenzo al Volturno, aveva qualche decennio prima formulato una nuova interpretazione delle nozze mistiche di Cristo e della Vergine, la quale accettando di portare nel mondo il Salvatore avrebbe guadagnato il diritto di dimorare eternamente nel Cielo, e anzi, di esserne regina accanto al figlio.
E in effetti la decorazione della cripta di Epifanio ribadisce questo parallelismo tra i due: le scene della vita di Maria (un’Annunciazione e una Natività) poste di fronte all’abside con Maria regina trovano una
corrispondenza diretta con le scene della vita di Cristo (Crocifissione e Resurrezione), legate tra loro dal momento dell’Incarnazione nel quale entrambi hanno accettato le rispettive missioni e che tutte insieme ripercorrono l’intero arco di vita, morte e nuova vita che Cristo ha reso possibile, secondo le credenze cattoliche, non soltanto per sé stesso ma anche per tutti i fedeli (dunque anche per il personaggio che qui era sepolto).
La processione di sante che si dirigono verso l’abside e le scene dei martirii dei santi Lorenzo e Stefano sono un’altra declinazione del tema della missione cristiana: i martiri sacrificano la vita per la loro fede proprio come aveva fatto Maria accettando di essere veicolo dell’incarnazione divina e in virtù di questo sacrificio guadagnano, come lei, il diritto alla vita eterna – un diritto che è stato garantito sia a lei che a loro dal sacrificio del Figlio, per il quale però fu cruciale quel momento di duplice avvio e di reciproca comunione di intenti tra lui e sua madre (l’Incarnazione) senza il quale non avrebbe potuto portare a compimento la sua missione.