«POETICAMENTE ABITA L’UOMO» Milano, oggi.

L’arte è sempre stata mossa dalla necessità di comprendere e conquistare le radici più profonde della vita e le vibranti metamorfosi che continuamente correggono, con tratti via via più incerti, i confini dello spazio e del tempo in cui è vissuta. Questo è, in sostanza, l’elemento costante che, pur nella sua inesauribile evoluzione formale, fa di tutta l’attività creativa un’esperienza di natura spirituale, come ben dimostrano tre diversissime rassegne ora in corso a Milano.

Natura e Slancio vitale sono gli assoluti protagonisti della mostra Le songe d’Icare – Il sogno di Icaro, la prima dedicata, in Italia, all’opera dello scultore francese Christian Lapie, visitabile fino al prossimo 5 novembre, presso la galleria Mimmo Scognamiglio.

Christian Lapie (Reims, 1955) ha studiato all’Ecole des Beaux Arts di Reims (1972 – 1977) e all’Ecole Nationale Superieure des Beaux Arts di Parigi (1977 – 1979). Da sempre attratto dalla manipolazione della materia, è partito da una pittura materica in gesso, ossidi e cenere, per passare, in un secondo momento, al bassorilievo e confrontarsi con lastre di cemento e legno carbonizzato. In seguito ad un viaggio nella foresta amazzonica, Lapie ha incominciato orientarsi verso la scultura, ispirandosi ai vari paesaggi incontaminati da lui vissuti e visitati. Accompagnate da alcuni grandi disegni che ne riprendono i motivi, formando dei dittici speculari a due facce, le monumentali opere in bronzo (rivestito di una pasta nera) compongono una foresta monolitica, dalla forma ibrida, vegetale e umana, e dallo spirito cosmopolita, che fonde in uno i molteplici immaginari dell’artista – dalla regione di Champagne-Ardenne, sua terra natia, all’Amazzonia, allo spazio della galleria milanese, fino a comprendere l’insieme di tutti i luoghi e non-luoghi dell’universo –. Nella fluida terra di mezzo plasmata da Lapie, ogni frammento dell’esistenza diventa così uno spontaneo evento comunicativo, aperto a illimitate possibilità interpretative.

La resa scultorea del complesso dialogo fra Intelletto e Coscienza è, invece, il fil rouge che congiunge i tre atti de La Stanza di Proust, progetto espositivo curato da Flavio Arensi, per il ciclo annuale delle Project Room della Fondazione Arnaldo Pomodoro, una iniziativa che consente a giovani curatori e artisti di farsi conoscere e di proporre al pubblico le ultime tendenze della scultura contemporanea.

Tre artisti sono qui chiamati, ciascuno in tempi differenti, a presentare la propria concezione dell’arte e della vita. Ad aprire l’evento era stato, lo scorso 10 aprile, Donato Piccolo (Roma, 1976), con la sua opera inedita Imprévisible (10 aprile – 29 maggio 2018), incentrata sulla contraddizione tra natura e artificio. L’artista aveva scelto una scultura robotica interattiva, capace di apprendere e imitare i movimenti del pubblico, per palesare l’autonomia dell’intelligenza artificiale da quella umana, sua progenitrice, forse, alludendo anche all’autonomia dell’opera d’arte dall’artista.

Segue, dal 19 settembre al 19 ottobre, il Concerto per natura morta di Roberto Pugliese (Napoli, 1982), una indagine sul ruolo giocato dalla tecnologia nella vita quotidiana e nell’espressione artistica. Il lavoro consiste in un gruppo di sculture sonore, disposte

secondo relazioni matematico-acustiche, studiate per sfruttarne al meglio le risonanze strutturali. Estendendo, per mezzo della tecnologia, la fruibilità delle proprie opere e dello spazio che le accoglie, da quelli visivo e tattile, al campo uditivo, Pugliese sembra suggerire la possibilità di un proficuo compromesso fra memoria e progresso, eterno e transitorio.

Il progetto si concluderà, infine, con Esserci (13 novembre – 21 dicembre 2018), una ricostruzione di un antico “salone delle feste”, realizzata da Roberto Fanari (Cagliari, 1984) intervenendo sul perimetro della stanza vuota con strutture architettoniche in ferro. A rievocare l’atmosfera dell’epoca contribuirà anche il sottofondo musicale, costituito da composizioni musicali settecentesche, rielaborate da Francesco Fugazza; mentre, gli specchi, restituendone le immagini riflesse, svolgeranno il compito inverso di ricondurre i visitatori alla realtà concreta del loro essere nel tempo e nello spazio.

Fino al prossimo 2 novembre, presso la C-Gallery, Identità e Corpo si incontrano e scontrano nella rassegna IM-PERFECTION, curata da Elena Korzhenevich. Prendendo spunto dai principi fondanti della corrente filosofica giapponese Wabi Sabi (XIV secolo) – Nulla è perfetto; Nulla è completo; Nulla è permanente – il duo artistico Mwangi Hutter svela l’inestimabile pregio del difetto che rende ciascun essere umano perfettamente se stesso.

Robert Hutter (Ludwigshafen, 1964) e la sua partner e moglie keniota-tedesca Ingrid Njeri Mwangi (Nairobi, 1975) hanno studiato scultura e pittura all’Alanus Hochschule für Künst und Gesellschaft di Alfter e nuovi media artistici alla Hochschule der Bildenden Künst Saar di Saarbrücken. Entrambi interessati al tema del corpo umano, quale terreno condiviso fra individuo e società, dal 2005, hanno unito le loro vite e i loro nomi, per creare un unico artista ideale, Mwangi Hutter, che opera, fra Berlino, Ludwigshafen e Nairobi, avvalendosi dei più diversi mezzi (pittura, scultura, fotografia, installazione, video e performance). In bilico fra identità e alterità, le immagini incostanti e incomplete di Mwangi Hutter si confrontano, qui, con quelle di altri quattro artisti – Amira Parree (Egitto, 1970), Maurice Pefura (Parigi, 1967), Lerato Shadi (Sudafrica, 1979), Vincent Witomski (Granoble, 1975) – per comporre una coreografia esistenziale capace di esprimere «La cacofonica musica dell’“Io” / che riflette l’armonia / in uno specchio interiore rotto», poiché, dopotutto, « IM-Perfect. / Perfect is the I. / Unfinished, incomplete, unlasting».

Sono, queste, soltanto alcune delle più stimolanti proposte di riflessione sul mistero dell’esistenza, ma mi sa che, nel frattempo, «tutto scorre».

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