“RAFFAELLO, TIZIANO, RUBENS”, CAPOLAVORI DELLA GALLERIA BORGHESE IN MOSTRA PRESSO PALAZZO BARBERINI A ROMA.

Sono cinquanta le opere di enorme valore temporaneamente trasferite dalle sale della Galleria Borghese presso l’ala sud del piano nobile di Palazzo Barberini, un’altra delle eccellenze museali italiane, esattamente le Gallerie Nazionali di Arte Antica, sempre a Roma.

Infatti mediante la mostra: “Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini”, dal 29 marzo al 30 giugno 2024, le Gallerie Nazionali di Arte Antica e la Galleria Borghese realizzano una inedita collaborazione per consentire ai visitatori di continuare a beneficiare del patrimonio conservato al primo piano della Galleria anche durante il progetto di rinnovamento e tutela.

Un’unione fruttuosa che esalta metaforicamente l’unione tra le due più belle raccolte d’arte della Roma del Seicento, prodotto delle attività appunto collezionistiche di Scipione Borghese e di Maffeo Barberini.

L’iniziativa approfondisce la rilevanza dei due mecenati, in quell’età in reciproco rapporto, protagonisti fondamentali della Roma del XVII secolo, che con il loro amore per l’arte generarono i nuclei iniziali delle collezioni delle loro insigni casate. Furono due uomini di potere ma della medesima cultura, un’ideale vicinanza storica e artistica.

Maffeo Barberini, ovvero Papa Urbano VIII (1568-1644), celebrò il movimento del barocco attraverso Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini, mentre Scipione Borghese (1577-1633) il Cardinal Nepote di Papa V, straordinario mecenate, è attribuita la preziosa raccolta della Galleria Borghese.

“Un evento dal più alto valore istituzionale a testimonianza della vicinanza non solo geografica ma anche professionale che lega i due musei”…”Nel solco tracciato da Scipione Borghese e Maffeo Barberini, che oggi avrebbero gioito per questa iniziativa, speriamo che il pubblico possa ammirare i capolavori borghesiani a Palazzo Barberini e celebrare questa mostra difficilmente ripetibile nei prossimi decenni”. Ha spiegato Thomas Clement Salomon, direttore delle Gallerie Nazionali di Arte Antica.

Il progetto di modernizzazione e tutela, finanziato mediante i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), segue il recente completamento del restauro delle facciate, tramite l’inizio di molteplici interventi volti a migliorare le varie operazioni di ristrutturazione.

Ricordiamo infatti anche la sostituzione delle tappezzerie e l’ammodernamento degli infissi nella prospettiva dell’efficientamento energetico, l’innovazione dell’illuminotecnica, l’ampliamento dell’accessibilità culturale, l’aggiornamento dei depositi e il ripristino di alcune grandi tele.

Per il grande numero e la complessità di tali interventi vi è stato il trasferimento appunto di una parte dei dipinti presso Palazzo Barberini senza tuttavia mai chiudere la Galleria Borghese, che mostrerà nelle sale al piano terra le splendide opere caravaggesche, i gruppi scultorei berniniani e molte altri capolavori.

“Nello svolgimento di interventi importanti del PNRR che cambieranno l’aspetto della Pinacoteca al primo piano della palazzina, la Galleria Borghese, con uno sforzo eccezionale di tutto il personale, non chiuderà mai e durante i lavori rimarrà visitabile. La mostra a Palazzo Barberini consentirà di rendere sempre visibile il patrimonio della Galleria e di istituire rapporti con un’altra eccezionale collezione barocca e con un’altra grande istituzione museale”, afferma Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese.

L’iniziativa di presentare un’esposizione con capolavori in trasferimento, accompagnata da un sistema di biglietteria incrociata, si identifica mediante una strategia innovativa e di elevato significato nell’ambito della valorizzazione e fruizione del patrimonio artistico. Tale scelta attesta il bisogno di mantenere accessibili al pubblico i molteplici lavori, senza servirsi di soluzioni temporanee come il deposito in attesa di restauro.

La decisione di non prediligere per le opere d’arte le casse ubicate in locali esterni al museo va al di là di considerazioni morali, determinando anche la scelta economica per cui è stata necessaria una manifesta stima dei costi e dei vantaggi associati.

Nella Galleria rimarrà accessibile ai visitatori una magnifica opera di Diego Velazquez: la “Donna in cucina con Cena di Emmaus”, posta nella Sala del Sileno, accanto ai capolavori di Caravaggio.

La tela è tra le prime composizioni del pittore spagnolo, realizzata intorno al 1618-1620, quando era appena andato via dalla bottega di Francisco Pacheco, pittore sivigliano.

Protagonista è una giovane domestica affaccendata in cucina, che sembra aver appena finito di mettere in ordine dopo una cena, come testimoniano la brocca e le ciotole rovesciate a scolare il panno bianco in primo piano. La natura morta degli oggetti è di enorme realismo, la luce risplende nella pentola di rame del mortaio e da una finestra è evidente una scena dell’episodio evangelico della Cena di Emmaus.

Questo quadro è stato rapportato a un passo di Santa Teresa d’Avila, la mistica spagnola del Cinquecento, che pronunciò alle sue sorelle le seguenti parole: “Figlie mie non sconfortatevi se l’obbedienza vi porta a occuparvi di cose esteriori, sappiate che anche in cucina si trova il Signore, e tra le pentole vi aiuta nelle cose interiori e in quelle esteriori”.

Diego Velazquez (1599-1660) è uno dei più importanti Maestri spagnoli di tutti i tempi e indubbiamente uno dei migliori interpreti della pittura barocca, che con la sua arte ha influenzato artisti del valore di Manet, Picasso, Dalì e Francis Bacon. Originario di Siviglia e formatosi nelle botteghe di Francisco Herrera il Vecchio e, come già citato, di Francisco Pacheco, di cui sposò la figlia Juana nel 1618, giunse a Madrid, in cui cominciò la sua impareggiabile carriera di ritrattista e pittore della corte reale.

Il soggiorno di Velazquez in Italia fu fondamentale perché divenne l’occasione per farsi conoscere al di fuori della Spagna, incantando i mecenati del nostro Paese come ad esempio papa Innocenzo X Pamphilij. Tornato in Spagna raggiunse l’eccellenza della sua arte. Il grande artista con il proprio senso di osservazione e introspezione creò alcuni tra i più splendidi dipinti grazie alle sue tinte calde e alle pennellate larghe, veloci e colme di materia.

Il percorso espositivo realizzato per la rassegna mostra capolavori che hanno condizionato la storia dell’arte.

Entriamo nel maestoso edificio, esattamente nello spazio in cui è situato il ritratto del padrone di casa Urbano VIII Barberini di Gian Lorenzo Bernini, incontrando subito dopo due opere messe a confronto: la Fornarina, bella e delicata, in collezione permanente di Palazzo Barberini e la Dama con liocorno, propria della Galleria Borghese, entrambe dell’illustre Raffaello Sanzio.

La Dama con liocorno è un dipinto databile al 1505-1506. La giovane nobildonna ha un vestito scollato dalle grandi maniche estraibili allacciate, pressoché identico a quello della Gravida di Palazzo Pitti. I capelli sono biondi, lunghi e fluenti, con un piccolo diadema sulla fronte e una pettinatura che le incornicia il volto. Gli

occhi sono azzurri e rivolti verso l’esterno, il viso è ovale. Al collo ha una catena d’oro annodata con un appariscente pendente di rubino e con una perla a goccia.

In braccio tiene un piccolo liocorno, un animale che simboleggia la purezza verginale poiché nella mitologia essi erano addomesticati solo dalle vergini. Il liocorno è l’idioma da sempre associato alla famiglia Farnese. Tale particolare ha fatto ritenere che la donna raffigurata potesse essere Giulia Farnese, amante di papa Alessandro VI, ma la critica è più convinta che sia Caterina Gonzaga di Montevecchio, vedova del conte Ottaviano Gabrielli di Montevecchio.

Poi proseguiamo nel salone d’onore che vanta la grandiosa volta affrescata da Pietro da Cortona con il Trionfo della Divina Provvidenza, la prima delle celebri volte barocche dell’Urbe.

Naturalmente riporto la descrizione a mio avviso delle tele più eccelse presenti nell’itinerario della rassegna.

Ritratto d’uomo è un’opera di Antonello da Messina, costituita tra il 1475-1476 circa, durante il suo trasferimento a Venezia. Il quadro riproduce un uomo, di condizione patrizia per il suo abbigliamento, la postura è di tre quarti, lo sfondo è scuro. L’espressione e lo sguardo sono vivacissimi e intensi, e sono considerati il lato più interessante del lavoro ritenuto uno dei capolavori della sua fase più matura.

Giovanni Bellini dipinge la Madonna con Bambino nel 1510. Il Maestro realizza tale composizione quasi ottanenne, in quel periodo il colore assume un ruolo sempre più rilevante adoperando una nuova tecnica: la pittura tonale. Essa sarà integralmente sviluppata dai suoi allievi Giorgione da Casterfranco e Tiziano Vecellio e sarà una caratteristica propria della pittura veneta del Cinquecento.

I personaggi della tela si fondono con l’ambiente circostante ed i colori e gli effetti luminosi sono simili a quelli dell’atmosfera naturale. Madre e figlio non si guardano, ma la loro unione emerge dall’intrecciarsi dei gesti, con Maria che non stringe il bambino ma lo offre placidamente all’adorazione dello spettatore.

Il tondo: Madonna con Bambino, san Giovannino e angeli di Sandro Botticelli, attuato intorno al 1488-1490, proviene dalla collezione del cardinale Salviati. Il quadro è proprio di un periodo della produzione dell’artista in cui si intravedono alcuni indizi della svolta stilistica e religiosa che determinerà la sua attività dopo la predicazione di Savonarola, con figure più plastiche ma meno leggiadre.

Il Bambino ha in mano una melagrana, metafora della Passione (i chicchi rossi richiamano il sangue che verrà versato) annunciata dal Battista e che il Bambino accetta, mentre la madre lo protegge con il suo tenero abbraccio. Il giardino che racchiude il gruppo è quasi certamente un’allusione a Maria come “hortus conclusus”, giardino chiuso.

Anche i fiori sono un richiamo mariano: nelle litanie Maria è denominata “rosa mistica”, nel Cantico dei Cantici la Sposa è definita “giglio fra i cardi”. I vasi di fiori saranno argomento di un curioso riutilizzo letterario cioè di ispirazione a Gabriele D’Annunzio, infatti il poeta nelle sue adorate passeggiate romane a Villa Borghese si recava nella Galleria e parlò dei vasi in un passo de “Il Piacere”, nel primo capitolo.

Susanna e i vecchioni di Pieter Paul Rubens è la versione più antica del tema interpretato, ripreso varie volte dall’artista. La tela è oggi riferita agli anni 1606-1607, in corrispondenza del secondo soggiorno romano di Rubens.

L’episodio all’interno del dipinto proviene dall’Antico Testamento e la sua protagonista è la moglie del ricco ebreo Ioakim, Susanna, la quale viene sorpresa da due vecchioni mentre sta facendosi il bagno nel giardino

della sua abitazione. Gli uomini la minacciano di una falsa accusa di adulterio se non si fosse concessa a loro carnalmente, ma lei li respinge e si ritrova in tribunale a difendersi dall’imputazione. Iniquamente condannata a morte Susanna riesce a salvarsi in virtù del profeta Daniele, dietro cui si nasconde l’azione divina, divenendo così simbolo non solo della virtù femminile ma anche della salvezza dell’anima attraverso la Provvidenza.

L’effetto luministico del quadro che tende ad evidenziare il corpo nudo di Susanna, è inteso da D’Hulst come una ripresa di soluzioni caravaggesche, mentre Paolini vi attribuisce un retaggio leonardesco, con l’alternanza di un fascio luminoso in primo piano.

Il dipinto Amor Sacro e Amor Profano è l’inizio della piena maturazione artistica di Tiziano Vecellio all’età di 25 anni infatti il pittore si afferma come il più significativo artista della Repubblica di Venezia.

L’opera è eseguita nel 1515 in onore delle nozze avutesi l’anno precedente tra due famosi politici del governo appunto della Repubblica veneziana. Parliamo del matrimonio tra Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci, basilare organo governativo della Repubblica e Laura Bagarotto figlia di Bertuccio Bagarotto, giureconsulto di origine padovane.

Il Maestro crea per tale occasione una grande tela lunga quasi tre metri, in cui i protagonisti sono due donne e un bambino. Il bambino, intento a giocare con le acque della classicheggiante vasca sarebbe Cupido, mentre le donne sarebbero un’allegoria dell’amore sacro, la figura vestita sulla sinistra, e di quello profano, la protagonista sulla destra.

L’interpretazione al momento è legata alla commissione del dipinto: un invito alle nozze per la sposa, portato direttamente da Venere e da Cupido, messaggero dell’azione.

Venere che benda Amore, è un quadro sempre di Tiziano Vecellio, risale al periodo compreso tra il 1560 e il 1565. E’ mostrata una scena prettamente al femminile, a sinistra abbiamo un’immagine identificata come Venere: una donna seduta di tre quarti, come la maggior parte delle altre rappresentazioni.

Come nella Venere di Urbino i capelli sono sciolti e in parte raccolti da una corona d’oro. La scelta dei colori si basa nell’utilizzo di svariati materiali. Da sottolineare il passaggio delle ombre colorate del cielo al tramonto che contribuiscono a dare tenuità e morbidezza alle figure.

In alcune parti come la veste di Venere, alcuni dettagli del paesaggio e le ali di Amore bendato, le pennellate risultano esser state date con più forza creando più spessore al colore mentre nelle figure femminili la sua stesura è invece più leggera ma compatta.

L’allegoria mitologica di Giovanni Luteri detto Dosso Dossi realizzato nel 1529 circa, faceva parte presumibilmente della raccolta di opere inviate da Enzo Bentivoglio al cardinale Scipione Borghese nel 1608. Il soggetto, in precedenza già identificato come Diana e Callisto, è stato poi riconosciuto come Venere scopre la bellezza di Psiche.

Il lavoro viene oggi ricondotto in maniera definitiva quale opera di Dosso Dossi per l’elevata qualità del paesaggio e per lo spettacolare nudo in primo piano, in cui sono evidenti i riferimenti alle correnti classiciste e romane, riscontrabili nella rielaborazione determinata da Giulio Romano della decorazione di Palazzo del Tè a Mantova.

Molti sono stati gli studi che hanno cercato di decodificare il reale soggetto della composizione, gli storici dell’arte in conclusione lo hanno riportato a tematiche ariostesche, al mito di Pandora, alla trasformazione

ovidiana di Siringa, alla vedovanza di Canete, alle vicende di Semele e alla rilettura del mito di Psiche sulla base di Apuleio o dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna.

La Predica del Battista è un dipinto del pittore veneto Paolo Veronese attuato circa nel 1562. Esso ritrae Giovanni Battista che predica in una foresta o deserto con alberi sottili e un cielo nuvoloso giallo rosato, come al tramonto o all’alba. I personaggi con turbante, lussuosamente vestiti sono quasi certamente rabbini o altre elite ebraiche. Il lessico del corpo discordante dei rabbini esprime reazioni diverse al messaggio di Giovanni.

Concludendo il progetto è nato ed eseguito in appena due mesi, come sottolineano i due direttori dei musei: Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon.

“Una mostra cui va il mio plauso per i tempi brevissimi in cui è stata realizzata e per la capacità di fare rete dimostrata”, commenta infatti il direttore generale dei musei del Mic Massimo Osanna.

In occasione poi della sua riapertura nel settembre del 2024, l’autorevole Musée Jacquemart-André si prepara ad allestire una esposizione fantastica oggetto di una collaborazione senza eguali con la Galleria medesima.

Il percorso pensato permette al pubblico di assistere ad un confronto, tanto visivo quanto ideale, tra due collezioni esclusive per prestigio e assortimento di opere d’arte, presentando le innumerevoli relazioni esistenti tra i capolavori.

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