Nella Firenze del 1501 nel cantiere di Santa Maria del Fiore giaceva inutilizzato un imponente blocco di marmo di Carrara, purissimo nel colore eppure fatalmente difettoso. Aveva infatti al suo interno una crepa longitudinale che ne comprometteva la stabilità e minacciava di spezzare a metà il lavoro di qualsiasi scultore tentasse di lavorarlo.
Il blocco sarebbe dovuto diventare una delle colossali statue di profeti alla base della Cupola del Brunelleschi, invece quel blocco bianco di nove braccia era stato bollato come inutilizzabile e tale era considerato da ormai venticinque anni.
Nel 1501, però, un ventiseienne di nome Michelangelo Buonarroti decide che lui da quel blocco di marmo vuole cavare qualcosa: un simbolo per la Repubblica di Firenze. Si reca dunque dall’allora gonfaloniere, Pier Soderini, il quale saggiamente gli concede il permesso di utilizzarlo, senza troppa fiducia nelle probabilità che quel giovane, seppure estremamente talentuoso, potesse riuscire laddove tutti gli artisti precedenti, compresi maestri come Agostino di Duccio e Antonio Rossellino, avevano fallito. Quel blocco di marmo era destinato a rimanere così com’era.
La leggendaria tenacia di Michelangelo, unita alla sua padronanza tecnica dell’arte dello scolpire la pietra, gli faranno vincere questo corpo a corpo con il marmo: da quel blocco gigantesco trarrà fuori un colosso dalla forza misurata, concentrato, dall’anatomia elegante e naturalistica e dalla posa classica.
È nudo come gli imperatori e le divinità, di una nudità trionfante e perfetta, ma le sue vene e i suoi muscoli interagiscono tra loro con il guizzo naturale di un corpo umano vivo; un’anatomia correttissima con la quale Michelangelo celebra scientificamente la bellezza del corpo umano maschile. Come prescriveva Policleto, scultore greco di V secolo autore del Canone e del Doriforo che ne è la messa in pratica, gli arti del David sono in chiasmo: la gamba destra è tesa a sostenere il peso del corpo mentre la sinistra è lievemente piegata; il braccio destro scivola elegantemente lungo il fianco, quello sinistro è piegato e porta la fionda. Altra citazione dell’antico è la folta capigliatura, realizzata con il trapano come era prassi in epoca ellenistica per sottolinearne i contrasti chiaroscurali.
L’episodio veterotestamentario è noto: il popolo ebraico guidato da re Saul stava per essere sconfitto dall’esercito dei filistei, il cui campione, il gigante Golia, sfidava ad una singolar tenzone che avrebbe decretato il vincitore della guerra chiunque avesse avuto il coraggio di raccogliere il guanto. Non fu re Saul né un soldato a farlo, ma un giovane pastore, David, che era lì per portare viveri ai suoi fratelli che invece stavano combattendo. David sa bene di non poter battere Golia per mezzo della forza: rifiuta l’armatura che il re gli aveva offerto perché troppo pesante e si munisce degli strumenti del fromboliere. Il masso scagliato da David colpirà la fronte del gigante nemico, che crollerà a terra e verrà prontamente decapitato dal suo giovane quanto astuto sfidante.
Particolarmente interessante è il momento che Michelangelo sceglie di rappresentare: né quello del trionfo, scelto invece nel 1440 da Donatello per il suo David di bronzo, né quello spettacolare e concitato dell’azione, selezionato non a caso dal profondamente barocco Bernini al fine di stupire lo spettatore.
Michelangelo decide invece che l’istante che decreta l’eroismo di David non è quello in cui poggia vittorioso il piede sulla testa mozzata dell’avversario, ma quello nel quale prende la decisione di agire. A Michelangelo non interessa che la pietra venga scagliata o che la spada mozzi la testa di Golia; gli interessa che quel giovane, di fronte alla minaccia della forza bruta abbia deciso di contrapporvisi, di contrastarla con l’ingegno e con l’astuzia. È l’opposizione alla ferinità da parte della ragione, che in tutta l’opera di Michelangelo si traduce nella continua lotta dell’intelletto sulla materia.
Questo eroe dalle forme classiche, intelligente e vittorioso sulla barbarie, che pur di difendere la libertà del suo popolo si mette in pericolo di morte non poteva non fare breccia nel cuore dei fiorentini, innamorati della loro Repubblica.
Si discusse infatti molto su dove questo neonato simbolo della città dovesse essere collocato. Pier Soderini, per non rischiare errori su una faccenda di tale importanza, convoca una commissione di esperti che valutino il problema e a capo pone un maestro stimatissimo, nativo di Vinci, di nome Leonardo.
Michelangelo aveva già pensato ad una sede per il suo eroe di marmo: voleva che fosse posto di fronte a Palazzo Vecchio, in modo tale che il bianco luminoso e il marmo levigato fossero in netto contrasto con la materia grezza del bugnato rustico. Sarebbe stato accanto alla Giuditta di Donatello, uno dei miti del giovane Michelangelo. Ma Leonardo temeva che, così poco protetto dalle intemperie e da altri accidenti, rischiasse di rovinarsi. Pare – la fonte è Giorgio Vasari – che al suo anziano e illustre collega Michelangelo abbia risposto che il suo David era abbastanza forte da resistervi.
La caparbietà di Michelangelo, che sappiamo essere capace di imprese memorabili, la spuntò anche questa volta. Tuttavia il tempo diede ragione al saggio Leonardo: le condizioni conservative del David divennero talmente gravi che fu necessario spostarlo. Dopo varie peripezie, il giovane eroe è approdato nella sala a lui dedicata nelle Gallerie dell’Accademia e a ricordare la sua sede originaria c’è ora la copia realizzata da Luigi Arrighetti.
Quanto alla crepa nel marmo il David, grazie alla maestria del suo scultore, è ancora maestosamente in piedi, deciso a raccogliere il guanto di sfida che giaceva intonso, temuto da tutti, proprio come Michelangelo ha fatto con la sfida di quel blocco di marmo difettoso, “impossibile da scolpire”, troppo fragile, dicevano, perché se ne potesse cavare qualcosa.