Tempo fa sono stati intervistati dei giovani di un quartiere periferico di Roma: Bastogi. Realtà raccontata in un recente film. Otto palazzine, 2000 persone, storie di ragazzi che vivono situazioni difficili. I ragazzi “del muretto” di circa 19 anni che si conoscono fin da più piccoli, crescono in un ambiente disagiato, senza aver studiato, con genitori assenti che spesso li responsabilizzano facendoli diventare adulti prima del tempo. “Si sono fatti da soli”. Cavarsela con furti, rapine, danni non troppo gravi che spesso li portano in carcere per alcuni periodi. Una retata della polizia permette la cattura di alcuni di loro, che forse prolungherà la loro permanenza in prigione.
La cosa che più mi colpisce di queste storie è la vita delle loro donne, anzi direi ragazze, che convivono con questi giovani. Carlotta, con pochissimi amici e incinta. E’ pronta per il parto, ma il suo compagno Gianni, quarantaduenne è in prigione e non riuscirà a vedere la nascita del suo bambino e lei è sola, orfana. Chicca è andata a vivere con Emiliano, ora in carcere e reo confesso. Lei lo ama, ma aveva giurato che se lui fosse andato di nuovo in carcere l’avrebbe lasciato. Cosa che non accade, anzi ogni giorno si avvia con il suo motorino davanti a Regina Coeli per sapere notizie dall’avvocato. Maria 20 anni, con due figli, il primo a 17 e il secondo a 18 anni è con Alessandro. Hanno passato dei bei momenti, si sono divertiti, cene fuori, facevano lo shopping insieme ed ora lui è latitante, perché è sfuggito alla retata.
Maria fa alcune affermazioni, che mettono in risalto gli stereotipi di questi contesti culturali, familiari che vivono questi ragazzi. “mio figlio diventerà rapinatore come Ale”; “la moglie del ladro non ride mai”, quel senso di rassegnazione, un’ingenua consapevolezza di essere sposate al destino delle vedove bianche!
Chi si prenderà cura di loro? Mutua collaborazione? Servizi sociali che offrono nuove opportunità a queste/i giovani? Sarebbe necessario un supporto psicologico, un confronto, una comunicazione al fine di individuare percorsi di supporto emotivo e non solo. Aiutarli a guardare con nuovi punti di vista, rimodellare il proprio stile di vita, modificare i condizionamenti limitanti, riconoscere il concetto del doppio legame che spesso tiene legate queste donne, comunque, ai loro uomini, nonostante le promesse e le sofferenze.
Imparare a riconoscere i propri bisogni, riconoscere l’altro, avere autostima, evitare l’invischiamento e rendersi conto della loro relazione disfunzionale, già presente fin dai primi momenti della loro vita. Il sostegno del clan non è sufficiente per migliorare la loro situazione. Creare delle aree di cooperazione al di fuori del sistema conosciuto, confronti con gruppi diversi, adottare strategie nella dimensione dell’empatia, del calore, della comunicazione. Favorire attività che inducano il benessere psicofisico, attività ricreative culturali che aiutino il processo di sviluppo interrotto per “adultizzazione” dei soggetti, scoprendo risorse ancora sconosciute. Promuovere attività lavorative, anche presso cooperative o comunità d’incontro. Individuazione e opportunità, integrazione personale e ambientale sono forme d’intervento che dall’assistenza portano all’autodeterminazione e alla progettazione, attività che vanno promosse per una vita migliore!