Rousseau (1844-1910) fu, per natura e non per scelta, un genio rivoluzionario e come tale non fu compreso dai suoi contemporanei, dal pubblico borghese dei Salon des Indépendants in cui espose le sue opere, e venne per lo più deriso per la sua arte semplice, i suoi colori piatti e le sue composizioni senza prospettiva. Pochi artisti furono beffeggiati pubblicamente come invece successe a Henri Rousseau ad ogni esposizione.
Immaginatevi Parigi agli inizi del 1900, dopo la Prima Esposizione Universale del Novecento che la lanciò come capitale del mondo e vi attirò, non solo i potenti di ogni dove, ma le menti più brillanti in ogni campo, soprattutto in quello artistico. In una città protesa verso il progresso e le avanguardie, erano attivi artisti come Henri Matisse, Andrè Derain , Picasso, Marc Chagall, Amedeo Modigliani, solo per citarne alcuni, e in un clima di internazionalismo culturale qui prendono vita il Postimpressionismo, il cubismo e il Fauvismo.
In questo ambiente e in tale fervore culturale cercò di farsi strada un timido e candido doganiere che a quarant’anni decide di lasciare il suo lavoro per seguire l’impulso interiore che lo spingeva verso la pittura. La sua passione emerse dalle notti di guardia alla barriera daziaria, dalla noia traslata nel dono di una tecnica minuziosa e raffinata. Le sue tele maggiori ricordano le pagine di un fantastico erbario, in cui foglie, alberi e vegetazione vengono descritti minuziosamente, copiate dal vivo da quelle che raccoglieva per boschi e giardini e riponeva e sovrapponeva con cura nel suo studio, insieme a quelle immaginate nelle sue fantasie esotiche.
Se l’arte può intendersi come un fiume che attraversa una società o un determinato periodo storico, influenzandone costumi e cultura, plasmando il pensiero come l’acqua che irriga i campi intorno nutrendo vaste colture tutte dello stesso tipo, le personalità al di fuori di quel flusso, come pozzi isolati che bagnano un piccolo orto, e non si lasciano influenzare da quanto cresce rigoglioso intorno a loro, producono frutti di tutt’altro genere, che saranno portatori di nuovi e impensati innesti.
Pochi si avvidero, nella Parigi delle nuove avanguardie e correnti artistiche, della rivoluzione a cui perveniva il Doganiere; pochi compresero il significato di quella pittura così magnificamente ‘sbagliata’ , così piatta, frontale, collocata quasi in un vuoto assoluto. Ne intuirono la forza scrittori e poeti come Apollinaire, Jarry, Jacob, definendolo un ‘primitivo moderno’, un ‘Adamo’ che dipinge prima del pomo. Nei quadri di Rousseau non esiste la luce e le persone, le cose, gli animali, le piante non aggettano ombre e acquistano un valore surreale. Mentre iniziava la storia della fotografia, la sua pittura ne anticipava il valore grafico e ritmico
Picasso, Braque, i dadaisti e i cubisti, Gauguin intuirono che Rousseau parlava d’istinto un linguaggio nuovo, alla ricerca del quale sono mossi da tempo. La prospettiva non esiste, le dimensioni di animali e persone non rispondono alle leggi euclidee e soprattutto la simultaneità delle figure e dei loro sogni o della persona vista in momenti vari e contemporanei anticipava e alimentava la ricerca successiva dei cubisti. Certamente il Doganiere capiva poco delle teorie e delle dissertazioni dei pittori ‘professionisti’; pensava per idee semplicissime e nelle sue tele volle esprimere la ricchezza della vita, ignorando serenamente le reazioni di ilarità che scatenavano i suoi quadri. Non ragiona; opera per impulso avendo intuìto che nell’Arte tutto è ammesso e legittimo se ogni cosa concorre all’espressione di uno stato d’animo: espulso ogni elemento razionale ci si può abbandonare all’esaltazione lirica dei colori e della composizione. Ricorda Paolo Uccello: come lui vive in un mondo strano, fantastico e reale insieme; come lui si compiace della ricchezza lussureggiante di piante e animali, belve e uccellini; come lui si dedica al suo lavoro con abnegazione, nonostante lo scherno e le risa che scatenano le sue opere ogni volta che vengono mostrate al pubblico.
Fu un pittore primitivo anacronistico, in un momento in cui la società borghese esaltava figurazioni raffinate ed episodi mondani. Non era interessato a nessuna delle ricerche che al suo tempo rinnovavano la pittura: attinse dal profondo della sua fantasia, d’istinto, al punto tale che la sua propensione per il realismo viene corretta, a sua insaputa, da un intenso senso lirico che spiritualizza la materia. Se dipinge dal vero l’albero, la foglia, un paesaggio, partecipa della loro esistenza, esprime la gioia della sorpresa, vi scorge l’immensità.
Così, grazie al genio, elementi umili si trasfigurano, conquistano gli occhi con la loro armonia, con l’equilibrio delle belle distribuzioni, come una poesia che rinfresca l’anima.
Rousseau non deve nulla all’arte del suo tempo perché lui guardà alla natura e all’arte con gli occhi di un bambino e le espresse con un grande talento per il colore, il disegno e una grande maestria nel mettere in equilibrio infiniti particolari.
Possiamo assumere il doganiere, come fecero Picasso e Apollinaire, a simbolo della controrivoluzione anti-impressionista, per un ritorno al disegno puro, al colore e alla affermazione del fantastico sul reale: dal suo seminato germoglieranno i fiori del ‘realismo magico’ e del surrealismo. Ecco dunque che Rousseau occupa un posto proprio nella storia dell’arte a ragione del fatto che, del tutto involontariamente, ha reagito all’Impressionismo, stuzzicando la fantasia di giovani artisti dell’avanguardia, come Picasso e Delaunay. Pittore privo di esperienza ed educazione accademica, attraverso la resa esatta dell’oggetto in ogni particolare e all’uso magistrale del colore, all’interno di enormi composizioni in equilibrio perfetto, ha saputo influenzare una generazione di pittori che apriranno la strada all’arte contemporanea. Ingenuamente si riteneva un pittore realista, ma privo delle convenzioni accademiche, come la prospettiva, la luce e la geometria, il suo realismo si esprimeva nella fede nell’oggetto raffigurato con assoluta semplicità di mezzi, quasi in una visione infantile che fissa la realtà in una dimensione incantata.
L’opera ‘Il sogno’ venne esposta al Salon des Indépendants nel 1910, anno della sua morte, accompagnata da dei versi di Apollinaire. Su un divano, una donna (si tratta di Yadwigha, un’amica polacca del pittore) sogna di essere trasportata nella giungla al suono del flauto dell’incantatore di serpenti; tutt’intorno una giungla esotica, animali feroci e un serpente. Tutti gli animali sembrano bloccati dal suono dell’uomo, mentre il serpente fugge e un elefante barrisce. I colori dei fiori e delle foglie donano l’equilibrio ad una composizione irreale, rendendola credibile.
Il dipinto finalmente avrà ottime opinioni di critica e di pubblico, concedendo a questo grande artista il riconoscimento che meritava… anche se alle soglie della sua dipartita!