La morte di Cristo segna un monito per l’umanità intera. Essa ci ricorda, in quanto fedeli ma soprattutto in quanto uomini, il valore terrificante ed imprescindibile della morte, l’importanza della speranza, l’assolutezza della fede nel Mistero. Nel periodo pasquale mi piace ritornare a leggere un piccolo classico della letteratura teologica: Immortalité de l’âme ou résurrection des mort? Le témoignage du Nouveau Testament di Oscar Cullman (teologo luterano). È uno di quei testi sui quali continuamente vale la pena ritornare a riflettere. In esso l’autore – mi si scuserà la sintesi brutale – istituisce un confronto tra i momenti finali della vita di Socrate, eretto a modello paradigmatico della cultura greco-pagana e i corrispettivi momenti finali della vita di Cristo. I messaggi che veicolano le rispettive morti si presentano alla nostra coscienza come modalità culturalmente e spiritualmente antitetiche di affrontare il fatidico momento culminante dell’esistenza. Con Socrate l’idea della morte non raggiunge quella radicalità propria che sarà veicolata dal messaggio cristiano neotestamentario. Ciò è vero perché la morte, nella prospettiva socratico-platonica, non è considerata causa di frattura tra la vita terrena e la vita ultraterrena, ma al massimo come occasione trasformativa, nel senso che l’anima, in sé immortale, spogliandosi del corpo continua beata – finalmente – la sua esistenza. La morte, socraticamente intesa, non coinvolge la ψυχή, ma soltanto il corpo o, sarebbe meglio dire, il legame del corpo con la ψυχή. La morte, cioè, frantuma questo legame trasformando la condizione dell’anima che, finalmente, da prigioniera diventa entità libera (Platone, citando Euripide, farà dire a Socrate: chissà se il vivere non sia morire e il morire, invece, non sia vivere?). Nella prospettiva greca, socratico-platonica, la morte non chiama in causa qualche forma di fede, bensì la certezza – filosofica – nell’immortalità dell’anima. Si badi che questa tesi, cioè l’immortalità, non è una verità di fede bensì una verità di ragione, vale a dire una conquista del λόγος naturale e chiunque abbia letto attentamente il Fedone di Platone sa a cosa mi riferisco. La morte di Cristo, invece, ribalta questa prospettiva nella misura in cui la morte, cristianamente intesa, si pone come momento di radicale frattura ontologica tra la vita terrena e quella eterna. Cristo muore completamente, e con Lui ogni cristiano, ecco la drammaticità dell’evento sconosciuta al pensiero socratico-platonico. La morte entra nella scena dell’esistenza del cristiano per via del peccato, e coinvolge l’uomo nella sua interezza. L’antropologia cristiana, infatti, non si fonda su forme di dualismo tra anima e corpo e la morte, pertanto, non interviene su di “un aspetto” dell’umana natura. Cullmann giustamente osserva che è «l’uomo intero, che era davvero morto» ad essere «richiamato alla vita da un nuovo atto creatore di Dio». Il cristiano, detto in altri termini, passa attraverso la morte, ne vive il drammatico e perturbante evento sul modello di Cristo, la cui esperienza terrena termina con un «alto grido inarticolato» dopo le parole «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc. 15,37). La serenità di Socrate, dovuta alla certezza filosofica nell’immortalità dell’anima, è sconosciuta alla disperazione di Cristo che sa di dover morire, poiché la vittoria sulla morte non può che sopraggiungere dopo la sua realizzazione. Il cristiano deve necessariamente morire per poter tornare a vivere. Ecco che qui, nel momento culminante dell’esistenza, si apre lo spazio della fede in quanto fiducia in Colui che soltanto può ridare la vita all’uomo mediante un «secondo atto creativo». È proprio questo secondo atto creativo, sconosciuto alla sensibilità filosofica socratica, che apre lo spazio alla fede che è sì certezza, ma non dovuta ad argomentazioni o prove, ma alla credibilità della promessa divina. Ebbene, la Pasqua cristiana ci ricorda tutto questo, vale a dire la radicalità e la novità del messaggio cristiano rispetto ad altri quadri culturali (quello greco pagano, ad esempio). La novità consiste, dal mio punto di vista filosofico, nell’importanza dell’abbandono. Le argomentazioni razionali esercitano un fascino indiscutibilmente accattivante sulle menti soprattutto dell’uomo contemporaneo, «abituato al culto delle idee chiare e distinte» di cartesiana memoria (e sulle argomentazioni razionali si fonda la certezza socratica dell’immortalità dell’anima). La fede, invece, sia nella sua dimensione orizzontale (fiducia umana) sia in quella verticale (fiducia in Dio) è, in quanto tale, abbandono alla promessa, fiducia della credibilità, rassicurazione esistenziale, moto del cuore. La fede, in questo senso, possiede una forte connotazione antiscientifica se con ciò facciamo riferimento selettivamente alla caratteristica più importante dell’atto di fede, che è sicurezza di ciò non è evidente (mentre la scienza, e in generale la conoscenza razionale, è ricerca dell’evidenza). La fede, dunque, implica questo abbandono o, per meglio caratterizzarlo evitando fraintendimenti negativi legati alla comune accezione del termine, sarebbe meglio parlare di ‘consapevole abbandono’. La Pasqua ci ricorda l’importanza di lasciarci andare e ce lo ricorda con ancor più forza quanto più per formazione, esperienze e vissuti e temperamento caratteriale siamo restii all’abbandono, ricercando sempre quella rassicurazione di tipo intellettuale così distante dalla comune esperienza umana.
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di
Francesco Luigi Gallo
15 Aprile 2022