Sull’isolamento quarantenario

Lo psichiatra italiano Eugenio Borgna distingue l’isolamento e il mutismo dalla solitudine e dal silenzio. In prima battuta questa potrebbe sembrare una mera e superficiale distinzione terminologica, ma ad uno sguardo più attento tale distinzione svela tutta la distanza tra una forma di chiusura assoluta, deprivata da ogni tipo di relazionalità, da una chiusura-apertura, spesso ricercata come momento di rigenerazione personale e cura di se stessi.

L’isolamento, sempre patologico e mai benefico, è la condizione di chi decide di troncare i legami col mondo rifugiandosi in una torre senza finestre. Il mutismo, che è il diniego della comunicazione, completa l’isolamento destinando l’uomo ad un’esistenza monadica. Per converso la solitudine, apparentemente simile all’isolamento, conserva ancora tracce d’umanità essendo essa la condizione di chiusura-apertura propria dell’uomo che consapevolmente si ritira ma che non si trincera mai dietro impenetrabili barriere. La solitudine è propria dell’uomo che riflessivamente si raccoglie nel momento sistolico dell’esistenza, pronto poi a riaprirsi, nel momento diastolico, portando con sé i frutti del suo raccoglimento. Talvolta l’isolamento non si decide ma viene deciso da volontà o situazioni estrinseche: è il caso a noi tristemente noto della pandemia.

Ben oltre l’aspetto medico, la pandemia di Sars-coV-2 sta producendo importanti conseguenze psicologico-esistenziali, strozzando la vita umana e destinandola – per quanto ancora non si sa – nell’angusto spazio di una vita monadica e isolata, nel senso indicato da Borgna.

Ad uno sguardo più attento, però, c’è da dire che la nostra vita interiore sembrerebbe essere scandita da una irresolubile dialettica in cui, a contendersi lo spazio dei vissuti emotivi, sono da un lato la paura dell’altro che oggi ci sembra posto ad una distanza infinita da noi e che pertanto ci costringe all’isolamento e dall’altro da un crescente senso di appartenenza alla specie umana, coinvolta totalmente nella tragedia pandemica – e ciò lo sappiamo grazie all’azione, spesso martellante, dei media.

Appartenenza al destino della specie e distanza dall’altro sono le due polarità che si mescolano e si intrecciano, in modo spesso confusionario, rendendo opachi ai nostri stessi occhi interiori le sfumature emotive con le quali ogni giorno facciamo i conti.

La prudenza, che in normali circostanze risulta essere una preziosa virtù in grado di preservarci, pare stia trasformandosi in terrore dell’altro, assumendo talvolta anche le forme dell’odio sociale e dell’accusa verso atteggiamenti considerati oggi inaccettabili. Ciò non toglie, però, che la compassione, almeno nel suo senso letterale di patire con l’altro e insieme all’altro, ci consente di non perdere quel senso di umanità che molto spesso, nelle pandemie del passato, sembrava avesse abbandonato il cuore degli uomini.

Questa dialettica produce un sentimento nuovo e inedito, forse mai provato prima d’ora dalle passate generazioni che, per l’assenza dei mezzi d’informazioni così potenti come quelli attuali, hanno vissuto le tragedie epidemiche confinandole nel più ristretto spazio di realtà settoriali (villaggi e città). L’azione informativa dei media (seppure molto spesso non adeguatamente filtrata) risulta dunque essenziale per offrirci quella finestra sul mondo dalla quale possiamo quotidianamente intravedere e riconoscere la sofferenza e il dolore in ogni angolo del pianeta e sentirlo come nostro, fedelmente al principio filantropico espresso dalla massima “homo sum, humani nihil a me alienum puto”.

David Quammen, autore di Spillover (2014) ha evidenziato il concreto rischio che l’allontanamento sociale possa, perdurando nel tempo, trasformarsi in allontanamento emotivo1. Questo aspetto è stato ben messo in luce qualche giorno fa da Massimo Recalcati in un intervento facilmente consultabile online2 incentrato sul concetto di trauma. Lo psicanalista ha rilevato come, nel tempo traumatizzato dalla pandemia, l’altro da noi (ad esempio il vicino che, sull’altra parte della strada, porta il cane a passeggio) mostra la sua radicale ambivalenza: egli appare sì come un uomo, preoccupato e intimorito tanto quanto noi che lo osserviamo, ma ci mostra altresì anche la possibilità angosciosa di divenire «rischio mortale» per noi. In questo senso l’isolamento assume la forma della fuga dall’altro, probabilmente infetto e quindi pericoloso. Tale fuga, però, si presta anche ad un’altra interpretazione; essa, infatti, piuttosto che abbandono e diniego della socialità secondo la fedeltà al principio egoistico mors tua vita mea, potrebbe essere letta anche come manifestazione agapica e filantropica di un profondo rispetto per l’altro, e quindi come scelta libera di protezione secondo una logica della distanza anziché della vicinanza, della presenza ì mediante l’assenza.

Ad uno sguardo più attento, però, questa apparente privazione della libertà (della forma più arbitraria di libertà, puntualizza Recalcati nel suo intervento) c’introduce ad una nuova forma di fraternità e socialità che recentemente è stata definita da Lorenzo Fazzini come «solidarietà per sottrazione»3. Questa nuova forma di socialità si costituisce nella forma del sacrificio della nostra socialità esteriore al fine di conquistare una forma più profonda, seppure meno intuitiva, di socialità raccolta ed interiore, che si manifesta nel donazione all’altro della possibilità di continuare ad esistere senza correre il «rischio mortale» del contagio.

Dal punto di vista filosofico risulta interessante notare anche un altro aspetto della vita quarantenaria che contraddistingue il nostro presente e che consiste, per dirla in breve, nella demitizzazione dell’idea che la vita umana sia tanto più felice e realizzata quanto più sia attivamente efficiente. Più in particolare, la pandemia in corso ci ha gradualmente mostrato che la

logica proprio dell’età della tecnica che tende ad identificare l’uomo con la funzione che svolge nell’apparato del quale è parte o, sarebbe più corretto dire, ingranaggio4. La stasi del nostro tempo ha bloccato l’apparato facendo emergere un’ulteriore dialettica bipolare. Da un lato, infatti, l’arresto dell’apparato nel suo complesso ha fatto sì che cadesse la maschera della professionalità5 e dall’altro, proprio tale smascheramento ha finalmente mostrato l’uomo al fondo del sua maschera, l’individuo denudato e manifestante non più la sua funzionalità ma la sua umanità al fondo di essa. Lo stato quarantenario, pertanto, ha riconvertito ciò che Galimberti ha definito come il «risolvimento definitivo dell’identità personale nella funzionalità» nella riscoperta dell’identità personale nell’umanità che prescinde dalla funzionalità. Questa riconversione apre lo spazio anche alla riscoperta di una rete sociale più radicale, rendendo il tempo dell’isolamento una vera e propria preziosa occasione di rinsaldamento relazionale secondo una logica della distanza fisica ma allo stesso tempo della tutela filantropica e della condivisione empatica.

Scopriamo quindi un aspetto nuovo dell’isolamento, tale per cui esso si costituisce non tanto come ritiro assoluto (ab solutum, cioè sciolto da ogni forma di socialità) ma come ritiro – paradossalmente – sociale e filantropico. Solo ricomprendendo la nostra condizione attuale sotto questa nuova luce potremo riappropriarci di quel senso di partecipazione sociale che, solo apparentemente, la nostra vita monadica e quarantenaria ci ha sottratto.

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