Sull’onda dell’iconoclastia

Le statue di tutto il mondo tremano. A distanza di più di 20 giorni dall’omicidio di George Floyd, l’afroamericano soffocato a morte da un poliziotto a Minneapolis, le proteste per i diritti umani dei cittadini di colore hanno generato uno spin-off leggermente fuori tema, ma forse non del tutto imprevisto.

Tutto è iniziato quando, negli Stati del sud degli Usa, sono state abbattute dai manifestanti alcune effigi di comandanti confederati ai tempi della Guerra di Secessione. I confederati, lo si ricorda, erano nel frangente contrari all’abolizione della schiavitù: mentre il nord degli yankee andava sviluppandosi verso l’industrializzazione, l’economia dei dixie del sud restava fortemente basata sui grandi latifondi di pochi proprietari, perlopiù piantagioni – e sugli schiavi che le lavoravano a titolo interamente gratuito.

Quattrocento anni dopo le importazioni di africani negli Usa, e centocinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù, il pensiero comune è subito andato a come, per i neri d’America, poco sia effettivamente cambiato. L’elezione di Obama nel 2008 non ha dimostrato che, oggi, un afroamericano possa fare tutto, perché l’aggregato sociale costituito dai neri riscontra ancora enormi discriminazioni e svantaggi socio-economici. Il tutto direttamente correlato, a partire da ieri e da ancor prima, al periodo della schiavitù. Mai, in effetti, oltre alle conquiste “sulla carta” per i diritti civili, c’è stata una vera e propria rivalsa degli afroamericani in termini di potere rispetto al predominio del W.A.S.P., il white anglo-saxon protestant.

Per questo, il pensiero del popolo in rivolta è andato subito alle statue, abbattendole come si fece con un Saddam o un Lenin, e non era difficile aspettarselo. Da lì, forse, la cosa è sfuggita di mano. In primo luogo, si sono manifestati i tentativi di emulazione in tutto il mondo: in primis con la statua di Edward Colston, in Inghilterra: questi fu un commerciante di schiavi, e oggi ufficialmente persona non (più) grata alla Storia.

In Italia, l’episodio della statua di Indro Montanelli a Milano, imbrattata e non per la prima volta: al giornalista che rappresentò per gran parte della propria vita il centro-destra borghese, si rimprovera l’attivo supporto al fascismo nel corso della gioventù, la partecipazione alle campagne di Mussolini in Africa e l’aver preso con sé una “sposa bambina” locale, leggasi con gli occhi di oggi “schiava sessuale”. E, soprattutto, il fatto di non essersi mai davvero pentito di quel periodo.

Occorrebbe, però, contestualizzare attentamente ciò che si vuole distruggere, in un modo che probabilmente, per sua natura, la folla inferocita non è in grado di fare – ma il singolo sì. Il mondo deve capire come guardare nello specchio del passato, con gli occhi di una civiltà umana che non esiste più, e che oltre allo schiavismo e al razzismo era fatta di ingiustizie, disuguaglianze, violenza e più guerre di quante oggi potremmo immaginarne. Il mondo, si sa, non è poi un bel posto, ma è stato anche peggio di così: se non fossimo in grado di rendercene conto, dovremmo fare damnatio memoriae di tutta la storia umana.

Inutile dire che non possa essere così: contestualizzare e usare il raziocinio è l’alternativa all’iconoclastia cieca: cosa vale la pena ricordare? E come? Negli ultimi giorni un’emittente americana ha rimosso dal proprio palinsesto lo storico film Via col vento, per i riferimenti razzisti che contiene; a Londra, è stata imbrattata la targa della Penny Lane cantata dai Beatles, perché in un primo momento si era creduto alla voce (poi smentita) che essa fosse dedicata al mercante di schiavi James Penny. L’iconoclastia è una furia come un’altra: distruggere i simboli del male può talvolta essere utile: si pensi ai simboli che l’ideologia nazifascista sparse in giro per Germania e Italia. Tenere una svastica o un fascio littorio su un palazzo pubblico non solo è inutile, ma può anche essere pericoloso e ispirare qualche facinoroso. C’è anche chi si è chiesto, in questi giorni, se non fosse il caso di rimuovere le scritte “DVCE DVCE DVCE” che costellano i mosaici attorno allo Stadio Olimpico di Roma. Un’idea che forse è più sensata di cancellare Via col vento poiché, appunto, soppesa la presenza o meno di valore storico nell’una o l’altra cosa. La sua utilità. La furia cieca, invece, non è mai realmente utile.

 

Fonte Foto

  1. La statua di Indro Montanelli, imbrattata negli eponimi giardini a Milano. (La Stampa)

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