Nel 1984 Gay Bryant, futura direttrice di Family Circle, rilascia un’intervista dal sapore caustico, nella quale afferma: «Le donne hanno raggiunto un certo punto – io lo chiamo “il soffitto di cristallo”. Sono nella parte superiore del middle management, si sono fermate e rimangono bloccate. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia».
È in questa intervista che il “soffitto di cristallo” (in inglese glass ceiling) fa la sua prima apparizione giornalistica, andando a definire l’insieme dei vincoli invisibili di natura meramente discriminatoria che impediscono a determinate categorie sociali di avanzare di grado nel proprio ambiente lavorativo: un tetto trasparente, di vetro appunto, che permette a chi lo guarda dal basso di vedere cosa c’è oltre ma che risulta impossibile da superare. Nel corso degli anni Ottanta l’espressione cominciò a essere accostata sempre più a un altro termine, “mommy track”, con cui si indicava la tendenza di molte aziende dell’epoca a sottostimare l’impegno lavorativo profuso da donne in età fertile, sia prima che dopo la maternità, e quindi a spingerle verso mansioni più tipicamente “da mamme” che di fatto precludevano loro la partecipazione agli interessi più alti dell’azienda nonché un avanzamento di carriera.
Non si è fatta molto attendere la reazione delle femministe, che subito hanno fatto proprio il concetto di “glass ceiling”, sventolandolo durante le successive battaglie di sensibilizzazione sul tema della (im)possibilità per il “gentil sesso” di raggiungere qualifiche lavorative di alto livello.
Ma è opportuno parlare oggi di glass ceiling? In altre parole, esiste ancora una condizione di svantaggio per le donne che vogliono progredire nel mondo del lavoro? La risposta sembra purtroppo essere affermativa, sebbene dei margini di miglioramento siano effettivamente ravvisabili. Nel febbraio 2018 il settimanale inglese The Economist ha pubblicato il glass-ceiling index, riportando i Paesi al mondo dove sembrerebbe più facile essere una donna in carriera, sulla base di una serie di parametri che vanno dal livello di istruzione al grado di rappresentanza femminile nelle posizioni manageriali.
È possibile affermare che i progressi, mediamente, siano stati lenti ma costanti e che abbiano interessato soprattutto un aumento della forza lavoro femminile: i Paesi del Nord Europa sono in vetta alla classifica, con la Svezia che primeggia attestandosi su un livello superiore all’80%, mentre Paesi come la Corea del sud, il Giappone e la Turchia arrancano notevolmente. Ciononostante, è bene sottolineare come in Corea del sud il movimento #metoo, che ha portato alla ribalta lo spinoso tema degli abusi subiti dalle donne sul posto di lavoro, sembri riscuotere un grande successo, segno (e speranza) che nel lungo periodo si possa ritrovare il Paese in una posizione più alta della classifica. D’altronde, il New York Times ha già messo in evidenza come negli Stati Uniti, a un anno dallo scoppio del “caso Weinstein” e del conseguente successo del movimento #metoo, ben il 43% degli uomini allontanati dal posto di lavoro in seguito ad accuse di molestie e violenze sessuali sia stato rimpiazzato, udite udite, proprio da donne.
Le donne continuano dunque ad avere un invisibile soffitto di cristallo sopra le loro teste, che preclude loro ambizioni, sogni e soprattutto il riconoscimento dei propri meriti. Se poi la nostra lente di ingrandimento si focalizzasse su determinate aree del mondo, più lontane da noi per latitudine e costumi, la situazione non migliorerebbe di certo, anzi, pensiamo al fatto che in molte realtà del nostro pianeta le donne non possono neanche accedere a un’istruzione superiore. “Eppur si muove”: anche se il movimento è impercettibile, quel soffitto di vetro sta iniziando a scricchiolare, e chi sa che un giorno non possa precipitare in frantumi rovinosamente ai nostri piedi.