“Trainwreck: Woodstock ’99”: su Netflix il documentario in tre puntate sulle cause del disastro

Uno degli eventi più caratterizzanti di una decade di per sé straordinaria, nonché uno dei momenti musicali più iconici della storia è senza dubbio il festival di Woodstock che nell’agosto del ’69 ha portato nella relativamente piccola cittadina di Bethel (NY) mezzo milione di spettatori. Benché nata come occasione commerciale risultò essere, grazie a coloro che vi attesero, una manifestazione collettiva nel segno della pace – animata da una fortemente sentita e concretamente espressa avversione nei confronti della guerra, la stessa avversione che animava le coeve proteste contro il conflitto armato in Vietnam, e informata dagli stessi valori di libertà e rispetto reciproco alla base delle contemporanee lotte per i diritti civili – e di rock, colori sgargianti e LSD; un tripudio del flower power che si concluse, la mattina del 18 agosto, sulle note della chitarra di Jimi Hendrix.

Woodstock ‘69 si distinse anche per la spontanea cooperazione di centinaia di migliaia di persone nel rispetto dell’ambiente e degli altri, un’oasi di serenità nella quale – nonostante il diffuso consumo di droghe – fu possibile ai genitori portare con sé i propri figli, bambini anche molto piccoli che, come si vede nei filmati, se ne stanno lì, contenti, ad ascoltare ottima musica in un’atmosfera tranquilla e quasi campestre: un’elegia ammantata di verde (in ogni sfumatura).

In termini logistici fu un assoluto successo, risultato impressionante data la quantità oceanica di partecipanti; risultato che, infatti, non era destinato a ripetersi.

Nel 1999, esattamente trent’anni dopo il primo, si decise di mettere in piedi un secondo Woodstock, stavolta a Rome, New York. “Trainwreck: Woodstock ‘99”, documentario in tre puntate attualmente su Netflix, racconta passo per passo gli eventi catastrofici di quei tre giorni di luglio e soprattutto ne indaga le cause; e sebbene la narrativa comune colpevolizzi (fin troppo convenientemente) i giovani della fine degli anni ’90 e soprattutto i generi musicali maggiormente in voga al tempo, giudicati eccessivamente aggressivi, il documentario riesce a smascherare l’ipocrisia di tale unilateralità, prendendo in considerazione nelle giuste misure sia le colpe della folla (che no, non è stata portata alla violenza e al disordine dalla musica, come vorrebbe una retorica tutta a favore degli organizzatori) sia le gravissime, imperdonabili mancanze della produzione del festival, mancanze che hanno preso la forma di prezzi folli (8$ per una bottiglietta d’acqua, 12$ col passare dei giorni) e di drastici tagli al budget con i quali la produzione ha sacrificato, senza scrupoli e senza scomporsi, servizi igienici (docce, bagni, spazzatura…un esempio di cosa questo voglia dire? L’acqua, sia quella teoricamente potabile che quella che gli attendenti – paganti – avrebbero dovuto usare per lavarsi, ha iniziato molto presto ad assumere una sfumatura marrone: lo smaltimento dei rifiuti organici, infatti, era stato giudicato troppo costoso dagli organizzatori, i quali hanno preferito lasciare che quegli scarti restassero lì ad accumularsi e, come emerso da analisi di laboratorio, a rendere l’acqua infetta) e servizio d’ordine che, data l’assoluta indifferenza con la quale era stato reclutato e la totale inadeguatezza dei suoi pochi membri era, di fatto, inesistente. A pagare le conseguenze dell’inefficienza del servizio d’ordine sono state soprattutto le quattro ragazze sessualmente aggredite (questo il numero dei casi che sono venuti alla luce, ma sembra legittimo considerare l’eventualità che un numero indefinito di altri siano rimasti, invece, nell’ombra), come tristemente prevedibile – e sì, stando alle parole di uno degli organizzatori era in effetti stato messo in conto che succedesse: messo in conto, non prevenuto; del resto, tiene a specificare con

malcelato fastidio, “alcune donne erano volontariamente andate in giro in topless”, come se questo elemento avesse un qualsiasi collegamento con l’essere state vittime di stupro.

E a cosa mai saranno stati dovuti questi tagli, così diffusi e su servizi così essenziali, se non alla vecchia e sempre arzilla necessità, incurante di qualsivoglia limite etico, di guadagnare?

C’erano state, infatti, in occasione di alcuni anniversari del festival, altre edizioni; quella del ’94, passata alla storia col nome di Mudstock per via del fango (e dei conseguenti disagi) formatosi per via di un violento acquazzone, colpì particolarmente le casse dei promotori, i quali dunque cinque anni dopo avevano un solo obiettivo: fare un profitto. Non solo rientrare degli investimenti, ma ottenere un margine che potesse risanare il capitale.

Il pretesto della condanna delle armi e della violenza – la strage alla Columbine High School era avvenuta solo pochi mesi prima – fu null’altro che un pretesto: agli organizzatori interessava in quanto possibilità di brandizzare in modo simil-sessantottino il nuovo Woodstock che, in realtà, nasceva (e così si sarebbe conclusa) come macchina per fare soldi; inoltre, mentre il pubblico del ’69 era composto dalle stesse persone che marciavano in protesta e la musica che ascoltavano rifletteva anche quelle istanze politiche, nel ’99 la situazione è, semplicemente, un’altra: la musica tendeva a parlare ai singoli, non alle masse, e tendeva ad occuparsi di altre questioni, con altri toni e – come normale tra due epoche a trent’anni di distanza tra loro – in altre circostanze; il clima sociale, sia giovanile che non, non era e non poteva essere quello del Sessantotto. Del resto anche i cartelloni pubblicitari recanti la scritta “Not your parents’ Woodstock” (“non il Woodstock dei tuoi genitori”) sembrano suggerire che anche il marketing ne fosse consapevole.

Se alla maggioranza delle ragazze e dei ragazzi che avevano acquistato il biglietto l’evento interessava prevalentemente per la possibilità di assistere ai concerti di molti dei loro artisti preferiti e per l’allure del primo Woodstock che prometteva un’esperienza memorabile sia a livello personale che sul piano storico, agli organizzatori del festival, come emerge chiaramente dalla docu-serie, non importava quasi nulla della musica: uno di loro, Michael Lang (anche uno dei promotori del Woodstock originale), ammette di non aver avuto la minima idea di quale tipo di musica facesse la maggior parte degli artisti che aveva chiamato; questo spiega perché le lineup siano state un alternarsi irragionevole di picchi di energia – delle band e del pubblico – e momenti di quiete fuori luogo, anti-climatica, non richiesta e, soprattutto, inefficace.

Se si ascoltano le voci di coloro che nella famigerata domenica di chiusura hanno messo in atto le distruzioni (con il fuoco delle candele date loro dagli organizzatori, i quali però non avevano concordato questa non piccola variazione delle condizioni di sicurezza con i vigili del fuoco), ciò che viene maggiormente espresso è il risentimento per le condizioni assolutamente disumane alle quali per tre giorni sono stati sottoposti i partecipanti: senza acqua, praticamente senza docce, soggetti a prezzi che all’aumentare dei disservizi basilari dovuti ai tagli all’igiene e alla sicurezza (disservizi che il quartiere del management, naturalmente, non condivideva) anziché diminuire aumentavano anch’essi, tanto che in molti sono stati costretti ad abbandonare il festival perché stanchi di vivere nell’immondizia senza lavarsi e senza acqua, per giunta sotto il caldo rovente di luglio. Dunque non si è trattato di una non specificata rabbia generazionale (quella che piace sottolineare ai responsabili delle condizioni disumane di cui sopra); non è stata la musica nu metal, intensa ma non incitante, di per sé, ad alcuna violenza, energica ma priva di conseguenze esattamente come è stata la maggior parte delle esibizioni, né i frontman delle varie band – nemmeno l’egocentrico e decisamente poco affidabile Fred Durst (Limp Bizkit) era stato sufficiente a scatenare il putiferio – ai quali pure, come nel caso di Anthony Kiedis (Red Hot Chili Peppers), è stato indebitamente chiesto di rimediare alle colpe della produzione (con quale mirabolante discorso avrebbe potuto, poi, riuscirci, rimane un arcano).

La rabbia che ha alimentato le distruzioni dell’ultima serata è stata il risultato di tre giorni senza acqua, infetta oppure a prezzi inaccessibili, tre giorni immersi nella sporcizia e circondati dai rifiuti e dal cattivo odore, assetati e sporchi sotto un sole rovente, ignorati da un’organizzazione che si era dimenticata di loro da ben prima che iniziasse il festival, impegnata a contare ogni dollaro e a spremerne quanti più possibile dalle tasche di ragazzini e ragazzine lasciati a loro stessi. Accanto ai criminali che hanno stuprato quelle quattro ragazze e ragazzine, accanto ai ragazzini e ragazzi inebriati del machismo di fine anni ’90, fomentati dal proprio gruppo a gridare più forte, a dire la frase più volgare, a molestare quante più ragazze possibili senza curarsi della loro volontà e sacrosanto diritto a divertirsi senza subire conseguenze, esattamente come accade alla loro controparte maschile (disparità che tra gli intervistati soltanto Jonathan Davis, frontman dei Korn, sembra in grado di notare) perché così fanno “i veri maschi” – una narrativa e prassi educativa tristemente né nata né rimasta negli anni ’90 –, accanto a tutti coloro che hanno trovato – e non avrebbero dovuto trovare – un’oasi priva di controllo nella quale poter fare tutto ciò che veniva loro in mente scomparendo poi nella moltitudine, privi di ripercussioni e conseguentemente privi di freni (Il signore delle mosche viene più volte citato, a sugellare in maniera goffamente pomposa una certa compiaciuta illusione di onnipotenza), accanto a tutti loro c’è la folla di persone (molte delle quali giovanissime) venute con l’intenzione e la speranza di passare tre giorni di puro (e non distruttivo) divertimento e che si sono invece ritrovate fisicamente ed economicamente prosciugate da un evento costruito appositamente per sfruttarle fino all’ultimo centesimo, senza la minima considerazione per nessuno dei loro bisogni, neanche i più basilari.

Durante le distruzioni ciò che maggiormente si sente gridare a chi le sta mettendo in atto non sono frasi vuote di adolescenti genericamente arrabbiati o rabbiosi: viene urlata la mancanza di acqua e l’essere stati trattati “come cani”; vengono distrutti gli ATM perché i soldi erano stati l’unica reale preoccupazione degli organizzatori del festival; la folla che si incammina verso il capannone del merchandising per farne razzia lo fa cantando una canzone dei Rage Against the Machine: probabilmente i più anticapitalisti tra gli artisti che avevano partecipato a Woodstock ’99.

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