Nella loro Bologna i Carracci più anziani – i fratelli Annibale e Agostino e il cugino Ludovico – avevano lavorato alla decorazione di molti palazzi signorili; per uno di questi, palazzo Sampieri (del quale avevano realizzato anche la decorazione ad affresco), i tre avevano dipinto tra 1593 e 1594 altrettante tele con funzione di sopraporta (oggi conservate a Milano, nella Pinacoteca di Brera). Queste opere, che insieme costituiscono un piccolo ciclo grazie alla somiglianza dei soggetti – tutte infatti raccontano dell’incontro convertitore di Cristo con una donna, peccatrice secondo la legge giudaica e il costume cristiano – offrono l’occasione di una contemplazione comparata delle differenze stilistiche tra i tre.
Infatti, nonostante a quest’altezza cronologica lavorassero ancora come un’équipe, Annibale, Agostino e Ludovico non solo non nascondono le rispettive peculiarità e le personali preferenze in termini di modelli, ma utilizzano ciascuno in modo diverso gli strumenti propri della pittura, impiegando i loro mezzi prediletti ai fini di un’efficace narrazione pittorica, che interpelli l’osservatore coinvolgendolo in prima persona nella discussione in atto tra i personaggi, facendogli ascoltare con gli occhi le parole da essi pronunciate.
Nel Cristo e la Samaritana di Annibale Carracci a dominare e a guidare lo spaziare dello sguardo sulla tela è il colore. Le figure statuarie si stagliano animatamente dall’ambiente che le ospita: a catturare immediatamente l’occhio è il giallo sgargiante della veste della Samaritana, in posizione centrale e aggettante, proiettata verso la posizione in cui si trova l’osservatore; accanto a lei la veste rosa chiaro di Cristo si allunga insieme al suo braccio verso la sua sinistra, lontano, mentre il gesto quasi speculare della Samaritana ci riporta al primo piano.
Le pose raffinatamente divergenti dei due protagonisti riflettono le loro due volontà: intuiamo facilmente che la donna sta affermando la sua posizione, mentre Cristo sta cercando di indirizzarla altrove. Quasi degli stessi colori bruni della natura circostante sono gli apostoli, che conversano in disparte: incuranti del discorso che sta avvenendo in primo piano vengono a loro volta quasi trascurati dallo spettatore, che viene invece portato verso il fondo del quadro dai colori freddi e sfumati dell’arioso paesaggio che si scorge oltre le fronde per poi proseguire – impedito a sinistra dalla figura vestita di verde – proprio in direzione dello spazio aperto indicato da Cristo.
Agostino Carracci opta invece, per il suo Cristo e l’Adultera, per un’architettura che prende a modello la Scuola di Atene dello studiatissimo Raffaello, dalla quale riprende puntualmente anche alcune figure ben riconoscibili. Agostino – diversamente dal fratello – sceglie come cifra dominante della sua composizione il gesto plastico, la posa non del tutto naturale. In uno spazio architettonico nel quale pare non passare nemmeno un filo d’aria, che accoglie i personaggi come fossero attori in uno scenario teatrale, tutti recitano esattamente la parte che il regista ha assegnato loro, mantenendo l’atteggiamento che il loro ruolo nella storia prevede: non si ha la percezione che queste figure possano muoversi liberamente (come accade invece per quelle di Annibale), non c’è spazio per l’improvvisazione.
Il simil-Eraclito (citazione diretta di Raffaello che però a sua volta aveva voluto omaggiare la fisicità energica dei corpi che Michelangelo aveva dipinto nella Volta della Sistina), posizionato al centro tra i gruppi distinti di personaggi attira l’attenzione di chi osserva, ma la reindirizza subito, tramite il suo capo chino, verso Cristo, la cui decisione è bilanciata e rafforzata dalla posa meditabonda dell’apostolo che gli
sta accanto, che con la mano sulla barba esprime una perplessità che trova un’eco in tutti gli altri personaggi. Tutti evitano di guardare l’adultera, qualcuno le dà sdegnosamente le spalle: un modo immediato per suggerire efficacemente il rifiuto categorico di accordarle qualsiasi tipo di ascolto. A darle udienza, col gesto della mano tradizionalmente significante anche la presa di parola, è invece Cristo, il quale pronuncia parole delle quali vediamo gli effetti nelle pose dubbiose, interrogative e colte di sorpresa degli astanti. A domandare visivamente il parere dello spettatore è la figura seduta in primo piano in basso a sinistra, che come la più esterna delle quinte teatrali chiude il sipario sulla scena e attende pazientemente di cogliere nell’osservatore la sua reazione a questa messa in scena sacra.
Nel suo Cristo e la Cananea Ludovico Carracci sceglie invece di far condurre l’azione, con dolcezza e riserbo, ai sentimenti, aumentando sia la carica emotiva della composizione che la risposta affettiva dei personaggi: la Cananea è inginocchiata ai piedi di Cristo e gli si rivolge con umile slancio; Cristo è sorpreso ma le dà attenzione, e subito protende una mano in segno di ascolto e quasi di benedizione; gli apostoli, che pure lo indirizzano verso la donna affinché lui la noti, sembrano non capire pienamente il comportamento del loro maestro. Il volto di Cristo, arrossato e lucente, è il punto luminoso verso il quale converge lo sguardo; la sua figura adombra i discepoli e dà invece spazio alla figura della donna inginocchiata, che con la sua insistenza, narrata nel Vangelo e rappresentata qui dal suo avanzare verso Cristo, vince la sua ritrosia.
Il paesaggio giorgionesco alle loro spalle, dai toni umidi, coesiste con queste figure spontanee, saldamente inserite in uno spazio naturale che facilmente possiamo immaginare nel suo proseguire oltre i margini del quadro, fino al luogo al di fuori di esso dal quale la Cananea pare arrivare di fretta. Ludovico Carracci, il più sensibile dei tre al sentimento religioso pudico e rigoroso della Bologna del suo tempo, anima il quadro di una religiosità soffusa ma non vacillante, incarnata da queste figure gentili capaci di cogliere l’attenzione dello spettatore con garbo e discrezione e di trattenerla con la tenerezza del colore e delle loro espressioni.