La Cura della follia (oppure Estrazione della pietra della follia, 48×35, Museo del Prado, Madrid) è un celebre dipinto di Hieronymus Bosch risalente con ogni probabilità al 1494. Si tratta di una delle opere d’arte a me più care e che sicuramente riveste una grande importanza per la valenza simbolica che, oggi più che mai, riesce ancora a trasmettere. Il significato del noto dipinto è satirico e richiama i temi, assai diffusi in epoca medievale e rinascimentale, della ciarlataneria e dell’ingenuità credulona. Il paziente raffigurato al centro della scena, infatti, che si affida al presunto esperto per estrarre dalla sua testa la pietra causa della follia ha un’espressione carica di aspettativa e attenta trepidazione. Tuttavia l’abile ingannatore, dall’aspetto evidentemente bislacco, estrae dalla testa del povero paziente un fiore anziché la pietra. Ad osservare la scena ci sono due bizzarre figure delle quali una, la monaca col libro poggiato sul capo, assume un significato paradossale riconducibile all’ignoranza e la stravaganza. Verrebbe da dire che l’esperto (ma lo stesso potrebbe dirsi delle due figure osservatrici) appare nel dipinto come più matto del matto che ‘cura’.
Per parte mia ritengo di poter dire qualcosa in più non tanto sul dipinto ma a partire dal dipinto (penso che l’autentico prodotto artistico non si lasci ingabbiare nelle strette maglie di un’unica interpretazione). L’idea che questo dipinto ha sempre suscitato in me si ricollega in qualche modo alle riflessioni che ho presentato in precedenti articoli pubblicati su questa rivista e ai quali ora mi ricollego, in modo piuttosto sintetico, lasciando al lettore interessato il compito del giusto approfondimento. Innanzitutto penso che l’opera in questione riesca, in un colpo solo, a mettere a fuoco tre tematiche oggi particolarmente rilevanti: l’ignoranza che aleggia intorno alla figura dello psichiatra, l’oggettivazione del paziente psichiatrico e la trasformazione della psichiatria che da scienza dell’anima (è questo il senso letterale della parola) è ridotta sempre più a mera tecnica del trattamento sintomatologico.
La posizione del paziente, seduto come usualmente si ci siede dal barbiere o dal dentista, ha una forte implicazione simbolica che si manifesta nella passività con cui spesso si affronta la seduta psichiatrica. Tale passività è all’origine di una totale e alienante oggettivazione del paziente stesso. Al contrario, la seduta psichiatrica (e psicoterapeuta) dovrebbe assumere la forma, più attiva e dinamica, di un confronto umano bidirezionale e non dovrebbe pertanto appiattirsi sul modello, certamente inadeguato in questo caso, delle altre branche della medicina del corpo.
Il lavorio che il millantatore opera sullo scalpo del malcapitato, invece, simboleggia la limitazione della pratica psichiatrica quando appunto si limita a considerare soltanto la “testa” del paziente dimenticando che la malattia mentale (se è ancora lecito definirla in questo modo) è piuttosto una condizione complessa in cui il presente, il passato e il futuro, l’individualità e la socialità, la gioia e il dolore del singolo uomo sofferente perdono il loro equilibrio e lo confinano in una condizione di inautenticità. La malattia mentale – definibile come condizione di sofferenza, di inautenticità e blocco esistenziale – riguarda, in altri termini, il complesso dell’esistenza umana e non soltanto, come la visione totalmente biologista e organicista vorrebbe, la “testa” del paziente. Come opportunamente ha notato E. Borgna oggi la psichiatria è oggi drammaticamente ridotta a encefaloiatria, vale a dire a mera scienza del cervello, sul quale si può agire, certo, ma soltanto con modalità oggettivanti coerenti al riduzionismo proprio del paradigma dominante nel settore psichiatrico.
Infine del dipinto merita di essere segnalato anche l’aspetto simbolico relativo al fraintendimento in cui spesso i pazienti incorrono quando si affidano ciecamente e senza le dovute cognizioni allo specialista di turno. L’affidamento totale allo psichiatra o allo psicoterapeuta non va immaginato come un affidamento passivo di tipo delegante (“lui risolverà la questione”, “lui mi sbloccherà”,
ecc.) ma come la costruzione di una relazione significativa fondata sulla medesima fragilità e umanità e del paziente e dello specialista (è un’idea, questa, che si ritrova nel pensiero di L. Binswanger). Diventa pertanto ridicola, esattamente come la monaca che regge il libro – simbolo della conoscenza – quella scienza psichiatrica che pretende di oggettivare l’uomo secondo una metodologia fondata sul modello delle scienze naturali. Se il miracolo, infatti, può agire in contrasto alle leggi di natura, sovvertendole o sospendendole, lo stesso non può dirsi dell’azione psichiatrica che invece deve muoversi secondo natura. Ma la difficoltà nasce dal fatto che la natura umana sulla quale la psichiatria interviene è prismatica e complessa, in gran parte sconosciuta ed è opportuno diffidare sempre da tutti coloro che, al pari di maghi e profeti, pretendono di intervenire con assoluta sicurezza su di una natura che non si manifesta affatto in modo immediatamente chiaro e comprensibile.
È opportuna dunque cautela ed è necessario che la prudenza accompagni sempre l’azione dello psichiatra, nella piena consapevolezza che, come già scriveva K. Jaspers in Psicopatologia Generale, il viaggio nella mente umana somiglia ad una sorta di spedizione in un continente del quale non possediamo una mappa ben dettagliata e definita, ma soltanto una carta con le possibilità dei viaggi da poter effettuare. Tali viaggi, bisogna ribadirlo con forza, vanno perseguiti nella piena «comunione di destino» (l’espressione è ancora di Borgna) tra terapeuta e paziente e il dipinto di Bosch mostra invece, in modo assai chiaro e perentorio, la direzione contraria che al giorno d’oggi la psichiatria organicista sta purtroppo seguendo.