Passando anche di corsa per piazza S. Giovanni in Laterano è difficile non notare la mole absidale mosaicata che, rivolta più o meno in direzione della basilica che domina il panorama circostante, appare a molti come una struttura singolare e curiosa, eppure – circostanza comprensibile in una città che offre una notevolissima varietà di soluzioni architettoniche – non tutti saprebbero dire con sicurezza se sia nata così, come nicchia decorata aperta sulla piazza, oppure si tratti di uno dei tanti edifici mutili o mutati che, testimoni sopravvissuti di un’altra Roma, la rendono una torre di Babele in forma di città, nella quale ad affastellarsi l’una sull’altra sono le epoche e ad innalzarsi all’infinito sono cupole, acquedotti, basiliche e palazzi.
La nicchia decorata a mosaico oggi visibile è una costruzione che non possiede più nulla di autenticamente leoniano; le uniche due superstiti del complesso sono le teste di due apostoli – originariamente pertinenti alla decorazione della calotta – non più in situ.
Poco dopo l’ascesa al soglio pontificio (avvenuta nel 795) Leone III – il papa che nel Natale dell’800 avrebbe incoronato Carlo Magno, garantendo al papato un precedente fondamentale (anche se non sempre efficace) per la pretesa del primato nei confronti dell’altra istituzione universale, l’impero, a sua volta convinta che fosse il papato a dover essere sottoposto all’autorità imperiale – decise di dare forme tangibili al suo progetto politico, di dimostrare visivamente e legalmente l’origine sia sacra che imperiale del potere del vescovo di Roma; il papa, in questo momento storico, si sentiva pienamente erede degli antichi imperatori romani in qualità di sovrano della città ed era vicario di Cristo sulla terra, il che lo rendeva, di conseguenza (sempre secondo la sua prospettiva), l’autorità superiore rispetto all’imperatore che, poiché cattolico, era una delle componenti del suo ecumenico gregge.
Appare inutile precisare che raramente gli imperatori furono d’accordo con tali premesse, soprattutto in considerazione del fatto che era l’impero a detenere uno degli eserciti più temuti dell’Europa del tempo, era l’impero a garantire protezione armata all’altrimenti indifesa città del papa e, di conseguenza, era l’impero a sentirsi, in ultima analisi, più in alto nella catena di comando.
Tale difficilmente sanabile controversia – che si sarebbe protratta ancora a lungo e che avrebbe poi dato luogo alla riedizione del battibecco tra impero e papato, la famigerata lotta per le investiture – era da Leone III particolarmente sentita: da una parte la Chiesa necessitava della protezione militare dei nuovi alleati carolingi, dall’altro aveva l’urgenza di ribadire i propri privilegi al fine di evitare che l’aiuto militare sfociasse in una presa del potere da parte dell’armato e potente imperatore.
Leone III mette in campo tutte le sue forze, lecite e illecite: sembra infatti risalire proprio a quest’epoca il Constitutum Constantini (la donazione di Costantino), un documento falso prodotto dalla curia romana (che fu però ritenuto vero finché Lorenzo Valla nel XV secolo non ne rilevò filologicamente le numerose incongruenze) in base al quale Costantino, il primo imperatore cristiano (almeno così era considerato e celebrato), avrebbe ceduto al vescovo di Roma il potere sulla parte occidentale dell’impero; fin troppo conveniente per essere vero, il documento rappresentava infatti proprio il tentativo giuridico estremo di legittimazione del proprio potere, una garanzia fatta fabbricare dal papa proprio nel momento in cui questa autorità temporale sembrava potesse vacillare. La stessa incoronazione di Carlo Magno si
configura come un tentativo – goffo, stando alle fonti di parte carolingia – da parte del papa di imporre la propria autorità su una figura da lui temuta e che, tutt’al più, gli era alla pari.
Anche il rifacimento e allargamento della residenza pontificia in Laterano rientra nella medesima propaganda politica: il papa, erede degli imperatori, faceva costruire per sé edifici ispirati alle dimore antiche. Il Triclinio – grande sala destinata ad ospitare ricevimenti e udienze – porta un nome latino perché si rifaceva al triclinium delle domus romane (la stanza della casa nella quale si mangiava e beveva sdraiati lateralmente sui triclini), ma vi aggiungeva la magnificenza delle proporzioni – imperiali – e un programma iconografico cristiano, adatto a ricordare a chiunque stesse banchettando con lui che il pontefice era l’erede diretto sia di Costantino che di San Pietro.
La sala era dotata di nicchie sui due lati lunghi e anche all’estremità, nella quale – in corrispondenza del posto ove sedeva il papa – si apriva un’abside che lo incoronava e che rappresentava, nella decorazione a mosaico, i fondamenti del suo potere: nella calotta, infatti, era rappresentata la Trasmissione del potere agli apostoli da parte di Cristo – una dichiarazione relativa all’origine divina del potere spirituale del pontefice; sulla parte destra dell’arco absidale, invece, S. Pietro (principe degli apostoli e primo papa) consegnava a Leone III e a Carlo Magno, inginocchiati di fronte a lui, rispettivamente il pallio e lo stendardo – le due facce di una medesima missione cristiana, in armonia tra loro e sottomesse all’autorità di Cristo, sì, ma attraverso l’autorità papale (è di fronte a San Pietro che sono entrambi inginocchiati); a sinistra, invece, i restauratori che nel 1625 hanno cercato di recuperare un monumento di VIII che stava ormai disintegrandosi, hanno collocato una composizione del tutto analoga a quella del supporto destro (una figura assisa in trono che consegna il pallio al papa e lo stendardo all’imperatore) ma con protagonisti Cristo e, ai suoi piedi, Costantino e Silvestro I (il papa al quale la tradizione aveva – erroneamente – attribuito il merito di averlo battezzato).
Si è parlato di restauro: già nel 1589 – sotto il pontificato di Sisto V – quando la maggior parte del Triclinio venne demolita, i mosaici vennero risparmiati; versavano, tuttavia, in condizioni critiche, e la parte sinistra dell’arco absidale era già scomparsa del tutto. Nel 1625 – all’epoca di Urbano VIII Barberini – si procedette dunque al restauro, sebbene non sia chiaro su quali fonti lo si realizzasse: la ricostruzione potrebbe essere frutto dell’inventiva seicentesca oppure potrebbe mantenere la memoria dell’iconografia leonina precedente. Durante il pontificato di Clemente XII (1730-40) si tentò di spostare altrove la fragile costruzione (restaurata nel secolo precedente), ma i lavori per portare a termine questa operazione ottennero soltanto di distruggere completamente la decorazione musiva: ciò che si vede oggi, dunque, è la copia settecentesca di un restauro seicentesco di un originale di VIII secolo.