IL TRIONFO DI TECMESSA La narrativa del dolore dall’Aiace di Sofocle a Mare Fuori

Raccontare il dolore è un’arte sottile, che pur cambiando nei secoli conserva immutata la sua natura violenta e primordiale. E mentre alcune soluzioni necessitano di vedersi rinnovate per abbracciare sensibilità nuove e nuove storie, altre, benedette dall’atemporale saggezza dell’essere umani, sembrano mantenere intatta la loro sferzante potenza contro la tirannia del tempo. Un esempio di quanto attuali siano ancora oggi alcuni espedienti drammatici formulati nell’ambito della tragedia ateniese del V secolo a.C. ci viene offerto dallo straordinario successo registrato dalla serie prodotta da Rai Fiction e Picomedia “Mare Fuori”, in onda a partire dal 2020 e tuttora in produzione. La sofferenza costituisce uno dei principali nuclei di sviluppo della serie, all’interno della quale assume caleidoscopiche sfumature e innumerevoli declinazioni, che tuttavia richiamano da vicino motivi cari al dramma sofocleo. Ciò che rende la poetica di questo tragediografo più vicina al nostro sentire di altre è la tendenza dell’autore a creare grandi dissidi nei suoi personaggi, insanabili e, soprattutto, personalissimi: tutte caratteristiche, si potrebbe notare, in grado di consacrare al successo storie di ogni tempo, e soprattutto quelle contemporanee, dove l’individuo è sempre più spesso chiamato ad affrontare il proprio intimo dramma, motivato e animato in unico slancio dal contesto in cui il protagonista si trova, ma senza che possa costituirne *tout court* lo scioglimento. Tale necessità di attraversare il proprio dolore la ritroviamo distintamente nella monografia dedicata al personaggio di Carmine Di Salvo nella seconda stagione della serie, nel corso della quale vediamo estrinsecarsi le profondissime voragini e le altissime vette che dolore sa definire: il personaggio, sconvolto dalla morte della sua sposa nel giorno delle nozze, impazzisce per rabbia e dolore quasi fosse un novello Aiace Telamonio di fronte alla strage di buoi, efficacissima e definitiva oggettivazione della personale tragedia del protagonista. Proprio come Aiace, inoltre, il giovane detenuto, una volta rinsavito -ma non prima di aver sondato, come l’eroe acheo, tutte le asperità del suo intimo dolore- invoca la propria morte: ma dove il progetto suicida del personaggio sofocleo aveva nella riconquista della *timé* il suo motivo più profondo, nella serie il protagonista desidera ricongiungersi con l’amata perduta, idealmente o meno. Si potrebbe affermare che l’esito diametralmente opposto della sofferenza nei due personaggi sia da ricondurre proprio a questa sostanziale differenza: se nel dramma sofocleo Aiace resta sordo alle accorate suppliche della compagna Tecmessa, in Mare Fuori è proprio l’empatia dell’amico Filippo ad avviare la catarsi, con ragioni che tra l’altro ricordano quelle della sventurata donna frigia: “è giusto, umano ricordare i momenti cari”. Finalmente, Tecmessa è stata esaudita.

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares