Un nemico invisibile

Usualmente quanto non è controllabile tramite i nostri occhi potrebbe essere percepito temibile e in queste settimane pare, purtroppo, farci paura il respiro stesso dell’altro.

Se giorno dopo giorno ci facciamo un’idea del mondo, vero è che questa nostra Weltanschauung vale fino a prova contraria: ci sentiamo però soggetti in grado di capire, per dirla in soldoni in grado di farcela, magari attraverso gli usuali meccanismi di controllo e dominio.

Ma sono giorni anche battuti dallo sgomento, la speranza si affaccia intermittente.

Il quotidiano, dal più banale al più impegnativo, e le abitudini usuali hanno subito modifiche, anche brutali, per motivi più che legittimi e finalità, ovviamente, atte a salvarci la pelle.

Le ore che trascorriamo dentro le nostre case sono scandite dal non più, non riescono a lambire del tutto la speranza dell’ancora.

Soprattutto esaltano il cambiamento brutale al quale, non si sa per quanto, sarà giocoforza adattarsi.

Sembra il tempo scorrere ad altra velocità, un tempo sospeso, quasi trattenuto: ci inquieta una rappresentazione del dopo non confortata da informazioni ora certe in itinere.

Lo scopriremo solo vivendo.

Intanto, però, ci troviamo scaraventati dentro un navigare, a vista, in una barchetta impoverita di certezze, in un mare sconosciuto.

Ci si appella, anche simbolicamente, in mancanza di bussola, alla pregressa conoscenza del vento, soprattutto non dobbiamo mollare il timone della nostra giornata, pur prendendo informazioni nel qui ed ora, talvolta contrastanti, talvolta anche defatiganti.

E’ un riadattamento step by step, oneroso, ci mette alla prova.

Fuori c’è un nemico invisibile.

Ci sentiamo braccati, forse invasi, tanto posseduti quanto “potenzialmente” delle vittime vinte, ma la partita è ancora tutta da giocare e la possibilità di dirci (e dire) queste cose non ci fa fare salti di gioia.

Siamo vivi dentro una giornata amputata di ritmi, riti, abitudini date per scontate.

Non è cambiamento da poco.

Drammaticamente incombente la rappresentazione di una morte brutta, che vola e striscia dentro i nostri pensieri, una morte in solitudine, di cui percepire, inquietante, la realistica vaghezza, una vaghezza che ci punge molto e nel profondo.

Allo sgomento si aggiunge sconforto, noi foglie precarie dentro un futuro di cui è difficile disegnare i

contorni, rilevati potenzialmente già diversi dall’ usate abitudini.

Avevamo contezza della morte, la sapevamo parte della vita, ma dalla nostra e per la nostra(vita) avevamo la possibilità di una via di fuga, quel fare bracketing ponendo fra parentesi pensieri veri, pur scomodi, dando così alle parole significati in percentuale.

Ora, invece, in una sorta di deserto dei tartari, diventa ancora più vero quello che abbiamo sempre saputo, ma che si poteva, proprio perché non così drammaticamente appalesato, ignorare, dunque non leggere compiutamente, piuttosto evitare di percepire.

Il silenzio, le cui tonalità di volta in volta riusciamo ad ascoltare perché possiamo anche ascoltarci meglio, è un silenzio che ci rimanda all’attesa, al vuoto, alla speranza, all’ incertezza.

Il rumore che aleggiava prima nelle nostre città, un rumore di vita, era anche coprente: la sua assenza può ora renderci capaci di dare voce ad una speranza dell’ancora possibile, tutto sommato traduzione del bisogno di conforto e vicinanza? ( fine prima parte).

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