Quello che viene considerato il rinnovamento figurativo della fine del Medioevo, ovvero quel riavvicinamento totale al classicismo, è stato fatto passare dalla storiografia come un qualcosa sorto in area toscana: come punto di svolta, vengono citati dal Vasari artisti come Nicola e Giovanni Pisano ed Arnolfo di Cambio per la scultura, Cimabue e Giotto per la pittura.
Eppure, basterebbe riflettere sul fatto che una città come Roma era sede del papato, che in questo momento raggiunge una vetta di potere straordinaria e, quindi, godeva di enormi possibilità finanziarie, che le convinzioni precedenti cadrebbero. Infatti, Roma ha perso completamente, fatta ad eccezione per esigui casi, il patrimonio artistico di fine ‘200, ma la tanto celebrata Assisi, che viene presentata come terreno degli artisti toscani, è in realtà una basilica papale, fondata da Roma, in cui può celebrare esclusivamente il Papa, e dove lavorano anche artisti romani, per secoli ignorati, offuscati dalla più citata scuola toscana.
Per questo motivo, bisogna riconoscere che la cultura artistica di questo periodo ha uno sviluppo tale che porta gli artisti più capaci ad un recupero totale dell’antico, non solo in Toscana, ma anche a Roma.
La visione toscanocentrica ha portato a ridurre l’importanza di grandi artisti romani come Cavallini, che viene considerato un allievo di Giotto, pur essendo più grande, o, addirittura, si posticipano le datazioni delle sue opere rispetto a quelle dei toscani.
Fortunatamente, la rilettura della posizione di Roma in questo contesto ha portato alla scoperta o alla riscoperta di comparti pittorici che erano stati perduti o restaurati, come nel caso del Sancta Sanctorum o della cappella di san Pasquale Baylon nella chiesa di santa Maria dell’Aracoeli.