“Farai strada, quant’è vero Iddio…comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio…”.
È la speranza, è la sentenza di un padre verso il proprio figlio ventenne, appena diplomato, pronto a spiccare il volo, a mordere la vita.
È Giovanni Vivaldi a parlare a suo figlio Mario, mentre trascorrono il loro tempo domenicale pescando. Il padre che ripone tutto il suo desiderio di riscatto sociale in quel suo figlio, lui, che ha trascorso trent’anni da anonimo impiegato ministeriale, riscattandosi già dalla condizione umile di nascita, figlio di contadini, ma non completamente soddisfatto della sua vita, e confida nel figlio per il completamento della sua scalata sociale.
Vita grigia e anonima di una borghesia piccola piccola, voglia di riscatto sociale, insoddisfazione e ansia di raggiungere una posizione che si crede di meritare per diritto, sono i temi principali dello straordinario romanzo di Vincenzo Cerami, un borghese piccolo piccolo, da cui è tratta la straordinaria piece teatrale in scena al Teatro Eliseo di Roma, fino al 5 novembre.
Lo spettacolo, prodotto da Pietro Mezzasoma, e sotto la regia Fabrizio Coniglio, che ne ha curato anche l’adattamento teatrale, vede un eccezionale Massimo Dapporto vestire i panni del borghese piccolo piccolo, giacca e cravatta, impermeabile e basette lunghe d’ordinanza, dando spessore e vigore alla drammaticità esistenziale di un uomo comune in cerca del suo riscatto sociale.
Una scena anonima, simbolo di una società vuota di valori, suddivisa in tre ambienti, posti tutti sullo stesso piano, proprio perché nessuno ha una valenza maggiore rispetto agli altri.
C’è la casetta di campagna di Giovanni Vivaldi, un capanno umile, disadorno, spoglio, che è il suo personalissimo rifugio, e che, nei sogni del padrone di casa, un giorno verrà sistemato a dovere per divenire così, confortevole luogo dove trascorrere la vecchiaia con sua moglie.
C’è la sua casa borghese, rappresentata da una cucina, con quei suoi status symbol, il frigidaire, la televisione, elementi imprescindibili di una società consumistica, che assaporava i primi effetti del benessere sociale, e dove l’ostentare era preferibile all’essere.
E c’è l’ufficio ministeriale, occupato dal capufficio di Vivaldi, una scrivania caotica, ingombrata da carte e scartoffie che strabordano sino a toccare il pavimento, simbolo della sciatteria, della negligenza di chi occupa un ruolo sociale importante, ma l’unica cosa che conta davvero, per lui, è sopravvivere allo scorrere del tempo, senza faticare troppo, schivando responsabilità e problemi, in attesa di uno stipendio da incassare a fine mese, in attesa di una sacrosanta pensione da incassare a fine vita.
È in questi tre ambienti che si concentra la narrazione del racconto pubblicato da Cerami nel 1976, e subito divenuto un successo, e dal quale Monicelli ne trasse, poi, uno straordinario film con un mostro sacro come Alberto Sordi nella parte del protagonista.
Ecco, già il riadattare un romanzo conosciutissimo in una piece teatrale, appare come una sfida impegnativa; se poi si dovrebbe pure schivare gli inevitabili confronti con un film di grande successo, allora l’impegno diventa gravoso, al limite del proibitivo.
Centrare l’obiettivo, con uno spettacolo di novanta minuti, godibile, appassionante, avvincente, che sa coinvolgere il pubblico, è il segno che la sfida è stata vinta in modo strabiliante.
Merito del regista Fabrizio Coniglio, che ha saputo asciugare la trama, senza smarrire mai la potenza denunciante dell’originale romanzo di Cerami; merito della straordinaria bravura recitativa di Massimo Dapporto, che insieme a Susanna Marcomeni, Roberto D’Alessandro, Matteo Francomano e Federico Rubino, riescono a dar forma e contenuto alle disperazioni umane, in modo dirompente e drammatico.
E così sul palco del Teatro Eliseo prende vita la tragedia di Giovanni Vivaldi, un anonimo impiegato ministeriale, che brama il proprio riscatto sociale e lo ripone tutto nella vita del suo giovane figlio.
Deve entrare al ministero, pure lui, glielo devono di diritto dopo i suoi trent’anni di servizio. Per questo si rivolge al suo capoufficio, troppo impegnato a togliersi la forfora dalla testa piuttosto che a lavorare. Vuole un aiuto, vuole una mano, vuole una spinta che aiuti il figlio ad entrare. Peccato che c’è da superare un concorso per entrare, fatto di scritti ed orali, e se su quest’ultimi una manina d’aiuto la si trova, sui primi, invece, non c’è nulla da fare, a meno che Giovanni Vivaldi non abbracci la massoneria, divenendo loro fratello.
Il borghese piccolo piccolo scende a patti con sé stesso, perde la propria dignità cercando scorciatoie sociali; “la scorciatoia o la raccomandazione – ha affermato il regista Fabrizio Coniglio – è avvertita dalla nostra società come qualcosa di necessario per sopravvivere: forse, in fondo, non crediamo più nella possibilità di essere tutti uguali di fronte alla legge e nelle pari opportunità di emancipazione sociale ed economica. Questo è lo snodo più fortemente attuale della storia“.
Perché questo racconto ambientato nella Roma degli anni ‘70, sembra invece attualissimo, quasi che la realtà pur mutando, si sia cristallinizzata. E tutti, nell’angoscia di Vivaldi, nel suo desiderio spasmodico di raggiungere l’obiettivo della vita, di cercare raccomandazioni utili, di prostrarsi al potente di turno, di divenire servile, possono rivedere tantissimi volti dell’umanità d’oggi; nel falso perbenismo di sua moglie, nella sua voglia di immergersi in una realtà parallela, come lo era, allora, la televisione, distaccandosi dalle preoccupazioni familiari quotidiane, perché vedere anche altri soffrire le procura un certo sollievo, possiamo ritrovare molte facce della nostra quotidianità; nelle aspirazioni sognanti di Mario, il figlio di Giovanni, nel suo guardare al futuro con tanto entusiasmo e speranze, coccolato, protetto e viziato dal babbo, quanti ragazzi di oggi possiamo vedere riflessi? E nel capoufficio Spaziani, quanti burocrati ritroviamo? Gente che non ha né passione né amore per il proprio lavoro, e lo svolge solamente per ottenere quel meritato stipendio, in attesa di una pensione.
Ma il romanzo di Cerami non fotografa solo la società; c’è di più. Infatti, quando Mario morirà per un colpo di pistola accidentale, durante una rapina, proprio il grande giorno del concorso, c’è il crollo di ogni volontà, desiderio, aspirazione del protagonista.
Il destino gli ha strappato le sue convinzioni, gli ha tolto il suo diritto alla felicità, e lui vorrà vendicarsi, sadicamente sull’assassino di suo figlio.
È la caduta dell’umanità negli abissi più oscuri, nella disperazione che distrugge finte certezze, e false vite sociali, nell’indifferenza di tutti.
Grottesco, drammatico, cinico, ironico, lo spettacolo sbatte in faccia allo spettatore l’immagine riflessa della società in cui vivevamo, allora, e in cui stiamo vivendo oggi, conducendolo ad una sana riflessione.
Perché dopo aver perso tutto, dopo aver dato forza alla propria sete di vendetta, cosa ci resta, ancora? Lo scorrere anonimo del tempo, soli con sé stessi, facendo solo e sempre le stesse cose…ancora, e ancora, e ancora…