Diego Aleo, ‘Libidine di un angelo’. “Abbiamo accettato la sfida della sofferenza e abbiamo assistito alla trasfigurazione del dolore in conoscenza”

I giorni passano e volano via, trascinati dal vento, come un petalo di un fiore strappato alla sua corolla da parte di un innamorato in cerca di conferme di un sentimento di cui lui per prima non è sicuro. È il mistero che ci avvolge e ci rende opachi di fronte alla grande luce di cui andiamo perennemente in cerca. È mistero e mistero grande la vita!

Può un racconto entrarti nell’animo, scavando tra gli umani sentimenti, scandagliando le proprie esistenze, con la delicatezza di una piuma e la profondità delle parole?

Sì, se è il romanzo d’esordio di Diego Aleo, Libidine di un angelo, edito da Bonfirraro.

Un racconto difficile da inquadrare, dal punto di vista letterario, un romanzo profondo e viscerale, originale nel suo genere; è l’introspezione dell’anima che combatte nella perenne dicotomia tra il bene e il male: quell’antitesi esistente in ognuno di noi, che siamo schiacciati, e allo stesso tempo sospinti, dal dolore, visto però, come un compagno di vita che dà forza e vigore per giungere alla fine, alla conoscenza.

Questo scritto da Diego Aleo, è un romanzo di vite vissute, d’incontri di anime, di profonde esperienze interiori; è la storia che intreccia le vicende dei due protagonisti del romanzo, apparentemente così diversi tra loro, ma anche così profondamente simili, e attraverso il loro racconto, l’autore scandaglia l’animo umano, che vive e si dimena nel dolore, uno stato fisico e psichico di forte sofferenza, visto però, come parte integrante della vita umana.

Infatti, “nessuno può evitare il dolore e l’unica soluzione è quella di affrontarlo e dirigerlo a nostro vantaggio”, e per questo ci vuole solo tanto coraggio di vivere e una straordinaria forza, che ognuno deve scoprire dentro di sé.

Libidine di un angelo’ è così l’incontro fortuito tra due giovani ragazzi, Albert e Khalid, il primo tedesco “biondo dall’aspetto bellissimo”, l’altro marocchino “arabo dalla pelle olivastra e dal grande cuore”; due origini diverse le loro, due culture diverse, due mondi in cui sono nati, diversi, ma entrambi accomunati da un dolore fisico e morale che stanno vivendo: innanzitutto la sofferenza di vivere in una terra straniera, e di viverci nella triste condizione di ultimi, di poveri, “i poveri nella terra del benessere”, così soli in mezzo ad una società che vive nel consumismo più sfrenato e dove l’indifferenza impera fortemente.

E dal loro doloroso dialogo, dal loro delicato confronto, che supera le diffidenze iniziali, viste come forti barriere di incomunicabilità, sgorgano preziose riflessioni sul senso più profondo del vivere umano, illuminando e affascinando il lettore stesso, spingendolo ad un intimo ed intenso raccoglimento.

Albert e Khalid affrontano questioni che attanagliano l’essere umano, come, appunto, il dolore, la fede, l’amore, e scoprono che solo attraverso la sofferenza, attraverso la piena conoscenza di sé, dei propri limiti, delle proprie paure, l’uomo può affrontare il duro cammino della sua vita, per compiere lo slancio finale; perché “solo chi ama ha in sé la possibilità di poter dispiegare le ali e librarsi in alto”.

Ma anche l’amore è dolore e morte, perché amare “è morire a se stessi per vivere in simbiosi totale con un altro essere”, e “per amare è necessario uscire dal proprio guscio e vedere se stesso riflesso in un altro essere, in un centro fuori di sé”.

E, allora, non si dovrebbe neanche avere paura della morte, che è solo una creatura evanescente, che creiamo noi stessi; “io sono alienazione dei tuoi pensieri” sembra dirci la morte, ma non ci conduce, però, alla disperazione, perché “la morte è la vita che si rinnova”.

Diego Aleo costruisce così, una storia intima e profonda, dalla trama esile ma con dialoghi realistici e veri, che conducono il lettore in un fantastico viaggio introspettivo dentro il proprio io.

I personaggi pur muovendosi in questo lembo di mondo fatto di sofferenza ed angoscia, pur avvertendo su di sé la pesantezza di una cupa cappa, dettata dalla loro condizione di emarginati, di stranieri, di ultimi, non sono mai avvolti dall’oscurità della realtà che vivono, perché illuminati sempre da una straordinaria luce di speranza, “che non è quella di non morire, ma è qualcosa che ha a che fare con la salvezza dell’anima e dipende dalla gestione più o meno responsabile della libertà”.

La mano leggera di Diego Aleo, guida il percorso catartico dei protagonisti, entrando in perfetta simbiosi con essi, vivendo con loro i propri stati d’animo che emergono lungo il loro sofferente percorso di vita, dall’irrequietezza, agli impulsi più istintivi, dalla riflessione più profonda all’accettazione serena della propria condizione umana, senza mai smarrire quella speranza di una redenzione.

Perché, in fondo, “senza dolore non c’è gioia. Il dolore è vita ed è anche la fiamma che accende la gioia”.

 

 

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