L’estetica giapponese attraversa la moda occidentale come un fiume carsico. Appare e scompare in un ciclo inesauribile di richiami, riferimenti allusivi, rimozioni. Alla fine di luglio, muore Kansai Yamamoto, uno dei fashion designer che maggiormente ha contribuito a farci conoscere l’eleganza del Paese del Sol Levante. Giovanissimo riuscì a farsi notare nella Londra dei primi anni Settanta. Tra i suoi ammiratori vi furono musicisti del calibro di John Lennon e Stevie Wonder, anche se il nome di Yamamoto rimarrà per sempre legato a quello di David Bowie. La celebre tuta spaziale di Ziggy Stardust, indossata dal Duca Bianco durante l’Aladdin Sane Tour del 1973, rappresenta infatti la creazione più famosa di Yamamoto e forse uno degli emblemi della fusione tra Occidente e Oriente. In particolare gli ampi pantaloni, a forma di semicerchio, si ispirano a quelli indossati dai samurai sotto i loro kimono. Tuttavia, nell’estetica dello stilista giapponese, vi è molto di più che un richiamo ai costumi tradizionali del passato, poiché trovano spazio i manga e soprattutto i protagonisti del teatro kabuki. Si tratta di una forma di rappresentazione scenica, sorta in Giappone nel XVII secolo, che ha avuto molta fortuna nel corso del tempo. Il teatro kabuki è molto diverso dal nostro concetto di teatro. La trama, intesa come concatenazione ricca di eventi e colpi di scena, è quasi del tutto assente, poiché vengono privilegiati aspetti apparentemente secondari, la cui valorizzazione è affidata alla capacità recitativa degli attori e al potere evocativo dei costumi. Tutto il lavoro di Yamamoto, d’altronde, è sempre stato basato sulla sfilata intesa come evento spettacolare, quasi come se gli abiti fossero per lui costumi di scena da inserire all’interno di uno show. La sua potenza comunicativa non sfugge proprio a David Bowie, il quale, dopo avere assistito alla sfilata-evento del 1971, ebbe a dire di Yamamoto: “Ha una faccia insolita… Non sembra né uomo né donna…c’è un’aura di fantasia che lo circonda. Ha fascino”. Le attuali correnti stilistiche, come ad esempio la moda a-gender caratterizzata per altro dai richiami al mondo degli animali e delle piante, guardano infatti alla tradizione orientale per portare avanti un racconto che superi i modelli, considerati vetusti, dell’eleganza femminile e di quella maschile. Se pensiamo ad altri stilisti orientali che hanno fatto la storia, come ad esempio Issey Miyake e Kenzō Takada, possiamo cogliere quanto profonda sia stata l’influenza del Sol Levante. Fino ai primi anni Settanta, i modelli di bellezza femminile erano così basati sui canoni occidentali che perfino Shiseido, azienda giapponese leader del beauty, tendeva ad escludere modelle asiatiche per le campagne pubblicitarie. Grazie a Yamamoto le cose iniziarono a cambiare e fu lui ad imporre lo splendore della sua musa Sayoko Yamaguchi che, nel giro di pochi anni, divenne una tra le modelle più ricercate. Per potere intendere il lascito di Yamamoto e più in generale decodificare la presenza dell’Oriente nella estetica degli ultimi cinquant’anni, vale la pena ricordare quanto scrisse il grande Roland Barthes nel suo L’Impero dei Segni (1970): “Laggiù il corpo esiste, si dispiega, agisce, si dà, senza isteria, senza narcisismo ma secondo un puro progetto erotico, sia pure sottilmente discreto. Non è la voce (con cui noi identifichiamo i diritti della persona) che comunica (comunicare che cosa? la nostra anima, per forza bella, la nostra sincerità? il nostro prestigio?); è tutto il corpo (gli occhi, il sorriso, il ciuffo, il gesto, l’abbigliamento) che intrattiene con noi una sorta di parlottio a cui il perfetto dominio dei codici toglie ogni carattere regressivo, infantile”.
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