Tragedia a Lampedusa. Nella giornata di ieri, un barcone carico di migranti è naufragato nei pressi dell’Isola dei Conigli. Oltre 111 i morti, ma il numero è tristemente destinato a salire e temiamo di molto. Le persone tratte in salvo sono 155. Secondo le testimonianze sul barcone viaggiavano circa 500 persone, quindi al momento i dispersi sarebbero ancora numerosi. Il mezzo si sarebbe rovesciato a poca distanza dalla riva, prendendo fuoco. L’allarme è stato dato dall’equipaggio di due pescherecci che transitavano nella zona. “Quando siamo arrivati in prossimità dell’isola abbiamo deciso di accendere un fuoco, incendiando una coperta, per farci notare – raccontano i sopravvissuti – Ma il ponte era sporco di benzina: in pochi attimi il barcone è stato avvolto dalle fiamme; molti di noi sono si sono lanciati in acqua tra le urla mentre la barca si capovolgeva”. Tra le vittime ci sono donne incinte e bambini, che forse nessuno reclamerà, tragedia della tragedia. Gli stessi soccorritori sono sotto choc. I loro occhi rossastri e lucidi, mostrati involontariamente alle telecamere, sono testimonianza delle crude scene alle quali hanno assistito, per trarre in salvo più gente possibile. “Il mare è pieno di morti”, denuncia poi il sindaco Giusy Nicoli, in lacrime, mentre cerca di comunicare al mondo la sua richiesta di aiuto per un’ isola di primo approdo, che ormai è al collasso; al centro di accoglienza si trovano infatti oltre mille persone, tra cui 463 immigrati, giunti con un precedente sbarco sempre nella giornata di ieri, che si aggiungono ai superstiti del naufragio. L’Europa risponderà? Finora non l’ha fatto, lasciando sola l’Italia nella gestione di questa spinosa questione, che non riguarda merci o beni di prima necessità (qualcuno glielo ricordi), bensì persone in carne ed ossa. Quando un essere umano decide infatti di lasciare il proprio paese per un altro, teoricamente più ricco e lo fa imbattendosi in un viaggio ignoto, che non assicura la salvezza, significa che egli è irreversibilmente disperato. Attraverso questo primitivo ragionamento è possibile giustificare il coraggio di chi sfida il mare aperto( spesso senza saper nuotare), ignaro del fatto di aver messo la propria pelle in mano a uno scafista straniero, pronto a traghettarlo a bordo di una nave da quattro soldi, dritto dritto all’inferno. Il barcone con a bordo i migranti parte, non sappiamo come, dove e quando; solca quelle acque ritenute salvifiche. Poi, nei pressi della meta di arrivo irrompe nei destini di tutti la maledetta possibilità di naufragare. Salutano per sempre questo mondo uomini, donne, bambini, spesso intere famiglie, colpevoli di non aver superato l’ultimo scalino della lotta alla sopravvivenza. Il mare non perdona chi lo sfida. E se proprio decide di essere generoso, lo fa restituendo non vite, ma cadaveri. D’altra parte noi italiani sappiamo bene cosa significhi essere migranti. Lo eravamo fino a pochi decenni fa. Basta ascoltare i racconti di quanti si imbarcarono in quel lungo viaggio alla ricerca di una nuova vita, per venire a conoscenza di ricordi non piacevoli, spesso scioccanti, che non permisero a molti di poter avere nuovamente la forza e la voglia di compiere il viaggio di ritorno. Purtroppo molti dei naufraghi di Lampedusa non avranno la possibilità di vagliare tale opzione, perché la vita, o meglio, la morte, ha già scelto per loro. Una traversata senza andata né ritorno.
Silvia Di Pasquale