Nella comunicazione straordinaria di sabato sera, il premier Giuseppe Conte ha definito l’epidemia da SARS-CoV-2 come la «crisi peggiore dal dopoguerra», e risulta difficile dargli torto. Gli italiani, stavolta, hanno accolto in maniera meno coesa l’ulteriore giro di vite sulle libertà individuali resosi necessario dall’allarme contagio. Una stretta che, però, risulta ancora e più che mai necessaria, anche al netto del disastro economico che presumibilmente ne seguirà.
In questi giorni stranissimi e tesi, più che l’alienazione da quarantena ha scosso il Paese l’arrivo di statistiche nuove e sempre peggiori: il 21 marzo sono stati registrati 6557 nuovi contagi e la cifra record di 793 deceduti. Il dato sui morti in Cina è ormai superato e nello specchietto retrovisore già da qualche giorno.
Eppure, anche in questi momenti terribili, non bisogna lasciarsi prendersi dal panico: è difficile trovare conforto in dati che attestano la morte di centinaia di persone ogni giorno – migliaia nel mondo – ma è possibile e doveroso analizzarli per dare una forma concreta a questo pericolo invisibile che cambierà per sempre quest’epoca.
L’Istituto Superiore di Sanità rilascia quotidianamente, sul proprio sito web, un documento di analisi statistica sui morti in Italia a causa del coronavirus. Questi dati danno un’interpretazione che potrebbe differire in certa misura da quanto suggerirebbe il vissuto di un’intera nazione nelle ultime settimane.
Colpisce, innanzitutto, il dato sull’età media dei deceduti: al 20 marzo, ultimo documento attualmente consultabile, questa si attesta sui 78,5 anni. Il range preso in considerazione include tutti i deceduti in Italia dall’inizio dell’epidemia, con valori che vanno dalla vittima più giovane, 31enne, alla più anziana di 103 anni. La media è quindi al contempo più alta di quindici anni della statistica correlata riguardante l’insorgenza di infezione COVID-19 a causa del virus, anch’essa apparentemente correlata con l’età e attestata sui 63 anni.
Altrettanto caratteristico il dato sulle comorbidità, ossia la presenza contestuale di altre patologie croniche al momento della morte. Come i media hanno ampiamente riportato, la possibilità di contrarre infezione da COVID-19 e soccomberne aumenta esponenzialmente se si hanno patologie pregresse che indeboliscono la risposta dell’organismo.
Nel documento dell’Iss, il relativo dato è stato tenuto in considerazione in circa 500 casi sui 3200 detenuti al 20 marzo: fra questi, le patologie più gravi per il decorso della malattia virale sono risultate essere ipertensione arteriosa (nel 73,8% di questi decessi), diabete (33,9%) o cardiopatia ischemica (30,1%). In molti casi (48,1%), sono state riscontrate tre o più di queste patologie contemporaneamente in chi è deceduto.
Sarebbe una menzogna, però, affermare che il COVID-19 possa colpire solo anziani diabetici o dal cuore debole: nel documento del 20 marzo, sono risultati essere 36 su 3200 (1,1%) i deceduti di età inferiore ai 50 anni. Nella fascia più “giovane”, 30-39 anni, i morti sono stati nove: sette di questi presentavano gravi comorbidità, mentre degli altri due non sono disponibili dati clinici.
Se questi dati possono in qualche modo costituire una seppur minima rassicurazione, in questi giorni in cui ognuno si sente in pericolo, non si tratta affatto di una scusa per abbassare la guardia o uscire di casa senza comprovato motivo. I giovani, seppur meno affetti, possono trasformarsi in untori per i più anziani o per gli immunocompromessi, proprio a causa della maggior difficoltà di individuazione.
Si tratta, in un certo senso, di quanto avvenuto in Corea del Sud: la setta da cui è partita l’epidemia era composta da giovani in salute, e ciò ha permesso al virus di diffondersi sottotraccia per settimane.
Senza contare che il collasso sanitario provocato da un’epidemia incontrollata sarebbe un disastro non solo per l’economia – la cui importanza, non ce ne voglia, è parzialmente rinviata a data da destinarsi – ma anche per chiunque necessiti di cure mediche non correlate al coronavirus.
Stare sereni, per quanto possibile, e affidarsi alla ragione è un conto: mettere in pericolo se stessi e gli altri è un altro. In questo momento, anche per chi dal coronavirus ha poco da temere, è un atto irresponsabile e imperdonabile.
Foto tratta dal Messagero.