La pagina Facebook “NOI denunceremo” si aggiorna in continuazione. I post, i commenti, le interazioni tra i quasi 32 mila utenti di questo gruppo aperto, visibile a tutti, sono talmente tanti che si fa fatica a leggere. Scrivono, commentano, pubblicano foto, quasi in preda alla frenesia, come se lo spazio messo a disposizione della rete possa essere divorato da una subitanea mancanza di tempo. Il mondo deve sapere prima che sia troppo tardi, anche se nella maggior parte dei casi l’irreparabile è già avvenuto. Hanno scelto come immagine del profilo la colonna di carri armati dell’Esercito italiano che porta via le bare dalla città di Bergamo. Quella foto che ha fatto il giro del mondo restituisce un pezzo di verità, l’intelaiatura parziale di una molteplicità di vissuti dolorosi e sconcertanti che rimangono sommersi nel racconto mediatizzato della pandemia da Covid-19. A Brescia e nella sua provincia, come a Bergamo e in tutte quelle località che non conoscevamo e che adesso ci sono diventate familiari, l’asetticità del concetto di pandemia e delle curve e dei dati sull’impennata o sul rallentamento dei contagi e dei decessi diventano altro, una realtà differente e spaventosa. Siamo di fronte ad una ecatombe. Sono in tantissimi a prendere la parola per dire quello che i bollettini ufficiali eludono. Sono parole che arrivano dall’epicentro della paura, della sofferenza e del lutto, per denunciare accadimenti ingarbugliati di persone ammalate, spesso abbandonate per giorni al proprio destino, morte senza una verità condivisa. Si fa difficoltà a leggere le testimonianze di chi è sopravvissuto al coronavirus, perché il succedersi degli avvenimenti – la corsa in ospedale, il ritorno a casa senza una diagnosi, le telefonate ai sanitari senza esito, i decessi improvvisi, l’assenza di tamponi e dunque di una diagnosi certa – appare come deprivato di logica. Come ha chiarito uno degli amministratori del gruppo in un vibrante videomessaggio, loro chiedono giustizia e non vendetta, ben consapevoli e riconoscenti agli sforzi eroici portati avanti da medici, infermieri, operatori sociosanitari, volontari, ma anche forze dell’ordine e personale della Protezione Civile. Sulla bacheca del gruppo fortunatamente non c’è spazio per le polemiche politiche. Non si cerca il capro espiatorio a cui addossare le responsabilità di una crisi sanitaria senza precedenti. Eppure le parole di NOI denunceremo riscrivono la Storia dell’emergenza; lo scorrere della bacheca riporta indietro nel tempo fino a febbraio e qualche volta a gennaio, quando il virus abitava un altrove della nostra mente chiamato Wuhan. Aleggia il sospetto che i primi casi siano anteriori al famoso paziente 1 di Codogno. In questa tragica linea del tempo disegnata dai racconti di chi c’era, che per forza di cose si discosta dalla curva ufficiale del contagio, lampeggiano tante domande irrisolte: Perché l’ospedale di Alzano non è stato chiuso al pubblico e sanificato? Perché, sebbene fossi febbricitante, mi è stato detto di andare al lavoro in reparto ospedaliero o in una RSA? Perché nessuno mi ha avvisato prima dell’aggravamento delle condizioni di mio padre, di mia madre, o di entrambi? Ora, questi interrogativi – ce ne sarebbero molti altri da elencare – si contorcono dentro racconti di interi gruppi familiari contagiati o esposti al rischio di contagio da Covid19. Il ritmo incalzante della narrazione collettiva parte da Bergamo per estendersi a raggiera a tutta la Lombardia e a tutto il Paese. Da altre regioni d’Italia, si testimoniano solidarietà e vicinanza soprattutto quando si accolgono le salme per la cremazione. Le urne cinerarie dovranno essere riconsegnate ai cari, la cui pena è stata aggravata da un “supplemento” di distanza post-mortem difficilmente tollerabile. D’altra parte, il punto di saturazione del dolore è stato già raggiunto e oltrepassato proprio nello svolgersi dei fatti. Chiami tutti i numeri, verdi e non, perché qualcuno dentro casa sta male. Suggeriscono la tachipirina, qualche volta l’ossigeno e soprattutto dicono di stare lontano dai Pronto Soccorso, divenuti super-diffusori dell’infezione. Bisogna prendersi cura di chi sta male, mentre ci si ammala, chiusi dentro case dove tutti respirano male e fuori non c’è più nessuno, come previsto dalle regole del distanziamento sociale e della quarantena collettiva. La paura soffoca le parole, le richieste d’aiuto, perfino la percezione di sé come cittadini a cui deve essere garantito il diritto alla salute (art. 32 della Costituzione). Come tutte le altre emozioni, la paura si trasforma superando così sé stessa per diventare racconto, individuale e collettivo, dal quale non si potrà prescindere.
Foto tratta dal sito web ilgiorno.it