Che sia stato un agguato di camorra o un regolamento di conti per un semplice litigio, il risultato non cambia. C’è una bambina di appena quattro anni che lotta tra la vita e la morte nella rianimazione dell’ospedale Santobono di Napoli, dopo essere stata colpita da un proiettile vagante proveniente dalla calibro nove di un novello Savastano che ha sparato all’impazzata su un bersaglio mobile, dimostrando peraltro, di non averne nemmeno le capacità. In un pomeriggio qualunque, un uomo evidentemente sovrappeso, giubbotto nero e casco integrale in testa, ha colpito per uccidere Salvatore Nurcaro, trentaduenne pregiudicato, assolutamente noncurante del traffico e del passeggio in una strada a due passi da piazza Nazionale. Terminato l’agguato, è fuggito via, da solo, a bordo di una semplice moto Benelli, cosa inusuale in un tipico regolamento di conti mafioso e l’unica certezza è, che, ciò che ha lasciato sull’asfalto, oltre al suo bersaglio, rappresenta per uno come lui solo un “danno collaterale”. Inaccettabile per la società civile, ma assolutamente tollerabile per questi uomini che vivono nel disprezzo della vita umana: come per un terrorista, l’obiettivo, in questi casi, diventa prioritario su tutto. Quando sei un killer di professione, che tu elimini una vita o ne elimini cento, non conta, cosi’ come non conta nemmeno di chi sia il l’oggetto colpito per errore: Noemi è solo una delle tante imprecisioni di uno sicario forse poco esperto.
Avvenimenti di questo genere, considerati ormai quasi un’abitudine nelle faide di Napoli, non fanno scartare l’ipotesi di una vendetta inscenata in una zona di confine, da sempre contesa sia dai Mazzarella che dai Contini a loro volta alleati con i Rinaldi. Probabile, dunque, una regia camorristica dietro l’assalto, anche alla luce delle modalità con cui ha agito l’energumeno con il volto coperto dal casco.
Diverse, sono però le stranezze che fanno tenere in considerazione anche una seconda pista, più privata.
Poco importa, comunque, alla gente comune, stanca di assistere inerme a questi delitti. Incapace di combattere un cancro maligno che tenta di uccidere la comunità per il controllo del territorio. Soggetti di una malavita sprezzante anche di fronte all’evidenza che, prima o poi, potrebbe subire la stessa sorte delle sue vittime. Uomini il cui cammino è segnato, condannati solo ad essere eliminati a loro volta fisicamente o a finire in carcere i propri giorni.
L’assassino, in quegli attimi concitati, non ha probabilmente mai pensato, neanche solo per un attimo che quella bimba avrebbe potuto essere sua figlia, sua nipote. Non ha pensato alla sua vita prima di quel momento. Non ha riflettuto sul fatto che l’abbia voluta o si sia trovato costretto ad una scelta obbligata, forse l’unica possibile.
Vi starete sicuramente chiedendo se abbia provato rimorso. La risposta è no. A patto che si tratti di un mafioso vero. Perché l’affiliato ad una cosca non è un essere umano nel senso letterale del termine, agisce con indifferenza, come un attore sulla scena, non ha rimpianti. Al contrario, già prima di muoversi giustifica il suo gesto: uccide per primo, per non rischiare di essere ucciso. Ha una psicologia molto simile a quella di un brigatista o di un estremista islamico. Ma il camorrista vero non è colui che ostenta di esserlo, il manovale mercenario, il delinquente occasionale. La mafia c’è l’ha dentro, conosce l’obiettivo e lucidamente lo colpisce senza tentennamenti. È più facile che, nel caso in questione, si sia trattato di un cane sciolto. Quelli sono i più pericolosi. Senza etica, ne rispetto ne di regole, ne per le creature più indifese. Incapaci, come ha dimostrato, pure di tenere in mano una pistola.