FALCONE SI NASCE?

“Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato…, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… Ma loro non cambiano… loro non vogliono cambiare… Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non c’è amore, lo so…” Queste le parole di Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, nell’omelia funebre del 25 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci, in cui rimasero vittime Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, insieme ad altri tre agenti della scorta. Morirono lasciando il paese sgomento e squarciato anch’esso non solo figuratamente, da quei 200 kg di tritolo. Nessuno, prima di allora, aveva osato sfidare la mafia in quella maniera e Cosa Nostra, aveva risposto in maniera tanto brutale quanto plateale, in un atto di forza che servisse da monito e deterrente per chi avesse osato decidere di perseguire la stessa strada del magistrato eroe. L’ingresso nel cosiddetto “pool antimafia”, istituito presso la procura di Palermo per investigare in modo organico sui reati di tipo mafioso ed il maxi-processo avevano determinato la svolta nella sua carriera, ma purtroppo anche la sua condanna. La vita di Falcone non è stata semplice a differenza di quanto proclamato spesso, da coloro che hanno voluto additare il magistrato, tacciandolo di manie di protagonismo per i successi raggiunti contro la malavita organizzata. Probabilmente, fra quelli che lo hanno esaltato dopo il decesso, molti erano stati gli accusatori, alcuni dei quali quando, nel 1989, scampò ad un attentato all’Addaura, vicino a Mondello, dissero o fecero intendere che la bomba Falcone se la fosse messa da solo. Voci tragicamente smentite tre anni più tardi. Ad azionare il telecomando a distanza in quel secondo attentato, fu Giovanni Brusca, l’uomo che uccise e sciolse nell’acido Giuseppe Di Matteo, un bambino figlio del pentito che aveva fatto il suo nome collegandolo alla strage. Il mandante fu, invece, il tristemente famoso capo dei capi, Totò Riina. Ogni anno, il 23 maggio è il giorno in cui si parla di legalità, con manifestazioni e incontri sul tema. Molte altre sono le memorie tangibili di quella strage: monumenti, vie, scuole, palazzi che portano il nome di Falcone e di sua moglie. Ciò che è rimasto dell’auto della scorta viaggia per l’Italia per mostrare a tutti di cosa è capace la mafia. Chissà se tutto questo possa servire a risvegliare realmente le coscienze. La realtà è che, anche la mafia ha paura. Paura che in qualche parte d’Italia, si possa nascondere un’altra persona capace di metterla con le spalle al muro, come ha fatto lui.

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